Da quando è cominciata l’offensiva di Israele nella Striscia di Gaza e, parallelamente, in Cisgiordania con interventi minori seppur costanti, è cominciata anche un’altra cosa, soprattutto a livello istituzionale (politico, d’informazione, culturale): la manifesta incapacità - e spesso la non volontà - di distinguere tra oppressori e oppressi, di dare al mondo arabo la stessa dignità e considerazione che si dà a quello occidentale, di intendere antisemitismo e arabofobia o islamofobia - due forme di razzismo e discriminazione - sullo stesso piano.
È frutto del nostro patrimonio culturale bianco occidentale: consideriamo automaticamente più affidabile un giornalista di CNN rispetto a una collega palestinese, ci riteniamo superiori in nome della democrazia anche quando quella democrazia mette in atto politiche del terrore tanto quanto i nemici contro cui dice di combattere, condanniamo una critica a Israele come un atto antisemita senza renderci conto che la nostra preoccupazione (spesso un’ossessione) di non scontentare una parte rivela la scarsissima considerazione che abbiamo della vita di chi sta dall’altra, dunque di chi è arabo, musulmano, mediorientale, palestinese.
Negli Stati Uniti questo squilibrio è molto accentuato. Lo è per ragioni culturali, certo, ma anche di puro interesse economico, politico e di potere. E la maggior parte delle volte è totalmente interiorizzato, difficilissimo quindi da rilevare, riconoscere, mettere in discussione tra le persone comuni. Un prigioniero israeliano di Hamas riceve molta più considerazione, persino immedesimazione, di 100 bambini palestinesi uccisi dall’IDF.
O, forse, destava.
Da un paio di settimane alcuni studenti di diversi Atenei degli Stati Uniti e di diversa provenienza etnico-culturale stanno dimostrando la propria esasperazione riguardo alle politiche di guerra e alle politiche discriminatorie di Israele e degli Stati Uniti attraverso proteste, sit-in, occupazioni e manifestazioni. Il carattere delle loro azioni e delle loro richieste sta attirando molta attenzione mediatica in tutto il mondo, anche se spesso in modo manipolatorio e parziale.
Per cercare di capire meglio e di entrare concretamente nei campus coinvolti, ho intervistato due docenti di New York, Clara Ramazzotti e Iuri Moscardi, con cui collaboro da tempo in diverse forme e che ho in grande stima. La loro testimonianza, lo noterai, restituisce perfettamente la realtà di questi eventi, che è spesso l’elemento che fa meno rumore.
1. Quali sono le università newyorchesi che frequentate e con quale ruolo e frequenza? Ci sono delle proteste lì?
Iuri: Insegno italiano in due università: Hunter College (CUNY) dal 2017 e Fordham University dal 2019. Questo semestre insegno due volte a settimana, sia a Fordham che a Hunter. CUNY è la principale università pubblica della città di New York, composta da 25 campus nei 5 Boroughs con 250 mila studenti: la protesta di CUNY si è svolta a City College, a Manhattan, poco a nord di Columbia. In questo college, che un famoso giornalista ha definito "università dei poveri", la protesta è andata avanti per parecchi giorni ed è stata conclusa dalla polizia martedì 30 aprile, la stessa sera di Columbia. A Fordham, università privata e gesuita, le proteste sono iniziate mercoledì 1 maggio, solo al campus del Lincoln Center (l'altro, quello originario, è nel Bronx): la presidente ha chiamato la polizia dopo poche ore.
Clara: Io frequento CUNY come dottoranda e Fordham come professoressa e in entrambi i college ci sono state le proteste, sebbene quelle a CUNY, a City College in particolare, siano state molto più grandi, per certi versi violente e con molti arresti. Non ho partecipato attivamente a nessuna protesta ma sono stata presente a quella di Fordham.
2. Ci potete raccontare come è fatto il campus e dove, fisicamente, si svolgono le proteste? Dall'Italia - come sapete - è molto difficile avere un'idea concreta di come è fatto un campus americano e quali sono i suoi spazi. Tanto quelli occupati dalla protesta, quanto quelli in cui la vita universitaria prosegue normalmente.
Iuri: Un po' come Città Studi a Milano, le università americane sono molto estese e occupano intere aree della città come una sorta di mega quartiere costituito da edifici accademici (facoltà), amministrativi (uffici) e residenziali (dormitori), oltre che prati/parchi e impianti sportivi. È fondamentale ricordare che sono spazi riservati a chi ci lavora e studia: serve sempre mostrare un badge (a Fordham all'ingresso; a Columbia - prima delle proteste - i cortili erano aperti ma l'ingresso a tutti gli edifici riservato). Questo perché i presidenti delle università hanno detto che c'erano infiltrati esterni, cosa davvero difficile se non impossibile. Sul modello di Columbia, gli studenti hanno piantato le loro tende occupando gli spazi verdi a Columbia (uno dei grandi prati proprio al centro del campus) e a City College. A Fordham invece gli studenti hanno montato le tende dentro l'atrio di ingresso, pur essendoci un ampio prato (plaza) disponibile. Quando la presidente di Columbia ha ordinato lo sgombero delle tende, un gruppo di studenti ha occupato un edificio dell'università, barricandosi dentro.
Clara: Mi concentro su Fordham dato che ero presente alle proteste durante la giornata. Fordham ha due campus, uno meno riconoscibile ma in centro a Manhattan, al Lincoln Center, dove sono avvenute le proteste. E uno nel Bronx, a Rose Hill, che è un campus a tutti gli effetti, ovvero una sorta di città dentro la città completamente indipendente dal resto del quartiere. Ha la sua sicurezza interna, i suoi mezzi di trasporto interni (autobus) e gli studenti vivono al suo interno, protetti. Il campus del Lincoln Center è aperto, di passaggio, in mezzo a una strada trafficata, si fa notare di più e ci passano anche persone che non c'entrano nulla con l'università.
3. Cosa chiedono gli studenti che protestano da voi?
Iuri: Non ho parlato con loro ma, sul modello di quanto avvenuto nel '68 e soprattutto negli anni '80-'90 con l'apartheid in Sudafrica, chiedono che le università rigettino i contributi che ricevono da aziende che fanno affari con il governo israeliano e che gli Stati Uniti tolgano l'appoggio a Israele nel conflitto contro Gaza. Le università americane spesso ricevono grossi finanziamenti da aziende private, che naturalmente poi hanno un certo potere di influenzare le università stesse. Gli studenti credono che non sia giusto ricevere finanziamenti da aziende che si arricchiscono vendendo armamenti o ricerche al governo israeliano. Anche la collaborazione con alcune università israeliane viene contestata per questo: la ricerca non viene percepita per fini scientifici ma con scopi militari.
Clara: Ho visto alcuni dei miei studenti alle proteste ma non si sono voluti sbilanciare più di tanto. Una mia studentessa, in particolare, di origine cinese e latina, è molto attenta alla tematica e ha molti amici pro Palestina, motivo per cui è stata la persona che mi ha detto più volte come l'atteggiamento di negazione verso i musulmani e verso chi è pro Palestina sia arrivato a toni aggressivi e dolorosi. In generale, mi sembra di capire che sono insoddisfatti dalla politica attuale.
4. I media comunicano cose molto diverse a proposito del carattere della protesta, concentrandosi soprattutto su quanto è violenta, se molto o per nulla: si va dagli slogan antisemiti e le minacce di morte agli studenti ebrei, da un lato, alla partecipazione consistente di persone ebree tra le prime file, a NYC come nelle altre città americane, dall'altro. Cosa vedete voi? E, in questo contesto, dove inserite il ruolo delle forze dell'ordine?
Iuri: Queste proteste hanno un carattere molto generazionale: uniscono persone israeliane (o ebree) e palestinesi (o musulmane) che condividono quanto ingiusto è ciò che sta accadendo a Gaza. Sono nate con uno spirito di contestazione molto forte, ma gli episodi violenti sono stati una minoranza, o comunque non sono stati mai l'obiettivo principale di chi guidava le proteste. Purtroppo, non è una situazione facilmente gestibile, da nessuno dei due lati, ed è accaduto che ci siano stati momenti di tensione. Però credo che chi le caratterizzi come antisemite o violente lo faccia sulla base, fortemente ideologica (e su cui si sta basando la giustificazione data dal governo israeliano a ogni misfatto compiuto dal 7 ottobre in poi), per cui criticare Israele significhi automaticamente essere antisemiti. Se uno la vede così, logicamente tutto è antisemita. Per quanto riguarda le forze dell'ordine, è fondamentale ricordare che sono intervenute solo e soltanto su specifica richiesta delle amministrazioni universitarie, le quali hanno tutte usato come scusa quella della sicurezza: le proteste, secondo loro fomentate anche da infiltrati esterni, avevano raggiunto un livello di rischio tale da mettere a repentaglio la sicurezza degli studenti (oltre che il prestigio delle università e l'autorevolezza delle loro amministrazioni). Questo ha fatto sì che la garanzia del diritto di espressione non fosse più sufficiente per permettere di andare avanti. Ho visto dei video di studenti della Columbia spinti a forza giù dalle scale, ma tutto sommato la polizia non ha abusato troppo della sua forza: anche se gli studenti sono stati arrestati con inquietanti fascette di plastica, sono stati condotti via con autobus e quasi tutti rilasciati dopo qualche ora.
Clara: Io vedo meno antisemitismo rispetto a quanto sento dire, devo ammetterlo. Non perché non ce ne sia, ma la presenza di ebrei alle proteste mi sembra molto importante. Nonostante sia un tema umano - la guerra - è chiaro che tocca in modo personale due specifici gruppi di persone. Quello che ho visto finora è critica verso Israele, non verso gli ebrei. Purtroppo non si dividono le due cose: non si comprende che provare ribrezzo per delle politiche militari (in questo caso di Israele) non significa essere dalla parte di Hamas, né di altri gruppi armati pericolosi. Spesso qui si accusa di antisemitismo essere solo contrari a ciò che sta facendo Israele verso le persone. Ciò non significa che non ci siano casi di violenza, intendo solo dire che personalmente non ne sono stata testimone a Fordham e i professori ebrei con cui ho parlato in questi giorni sono molto attenti a sottolineare il loro disappunto verso Israele, non verso le persone, i cittadini e gli ebrei nel mondo. Le forze dell'ordine sono state chiamate per tenere tutto sotto controllo, credo che sia peggio ciò che hanno scelto di fare le università. Non mi piace che a qualunque protesta ci sia in automatico la polizia che viene chiamata non per aiutare i manifestanti a sentirsi al sicuro. Credo che anziché aiutare ad abbassare i toni si rischi di aumentare la tensione.
5. Pensate che concentrarsi sul carattere più o meno violento o più o meno massiccio di queste proteste (vedi lo sgombero della Columbia) centri il punto o, al contrario, rischi - in modo più o meno volontario - di mettere in ombra il reale contenuto del dissenso?
Iuri: È sempre la questione di vedere il dito o la luna: il vero obiettivo è sacrosanto, ovvero chiedere alle università di prendere precise posizioni etiche con profonde conseguenze economiche; tutte le amministrazioni, spesso stritolate anche dai politici nazionali (subito pronti a strumentare il tutto, soprattutto da destra), hanno preferito la prova di forza chiamando la polizia. L'unica amministrazione che non lo ha fatto è stata quella di Brown, a Providence (Rhode Island). Nessuna protesta, per essere tale, può evitare di dare fastidio; ma di violenze se ne sono viste davvero molto molto poche. Chi si focalizza su quelle guarda il dito, e lo fa in cattiva fede (come i Repubblicani, per esempio, che sono da sempre schierati pro Israele).
Clara: Credo che scontrarsi anche fisicamente sia parte della natura delle proteste. Quindi non penso che parlare delle violenze sposti l'attenzione, semmai le fa girare, le rende virali, ne fa parlare. In un mondo ideale vorrei che non servisse la violenza per esprimere un concetto, ma in casi caldi come questo vedo difficile, molto difficile, credere che si possa ottenere ascolto senza disturbare l'autorità. Preferirei che le proteste non venissero etichettate come passatempi violenti di giovani studenti, c'è molta molta gente che ha paura per quello che sta succedendo e ha paura dei governi che non sanno fermarsi (e appartengono a uno, quello americano, che decisamente non sa quando farlo). Preferirei proteste senza caos? Sì. Possono esistere? Onestamente credo di no.
6. Antisemitismo e arabofobia sono concetti trattati in modo equivalente nelle vostre realtà quotidiane? Mi spiego con una provocazione: uno studente ebreo che oggi si sente minacciato dalle proteste nei campus gode di maggiore o minore o uguale considerazione di una studentessa di origine araba che protesta o si sente minacciata da quello che sta accadendo a Gaza? Non tanto tra gli studenti, bensì nell'opinione pubblica generale.
Iuri: Questa è una questione molto delicata: non bisogna mai dimenticarsi, infatti, che essere israeliani/e o ebrei/e non significa automaticamente essere pro Netanyahu. In generale, se vogliamo paragonare i due gruppi, quello ebraico ha sicuramente un'influenza e una rilevanza maggiore all'interno della società e della politica americane (e newyorkesi in particolare). Per dire: Chuck Schumer, capo della maggioranza al Senato degli Stati Uniti originario di New York, pur essendo del Partito Democratico ha definito i protestanti shmuck, un termine che significa babbeo o idiota dalla chiara origine yiddish; infatti, Schumer è di origine ebraica. A New York, poi, interi quartieri sono a fortissima maggioranza ebrea, anche ortodossa, e moltissime persone in posizioni di comando a livello politico ed economico sono di origine ebraica: questo fa sì che la loro voce possa contare su un sostegno molto forte. Al contrario, quello palestinese è uno dei tanti gruppi che cadono sotto la generale etichetta di musulmani o mediorientali e pochissime persone palestinesi possono far sentire la loro voce - e farsi ascoltare - nelle stanze dei bottoni. Questo non toglie che di base nessuno dovrebbe sentirsi mai minacciato per la sua identità religiosa o etnica, che è anche la base della cultura e dell'ideale politico degli Stati Uniti.
Clara: Non vedo molta cura e attenzione verso i musulmani e gli studenti di origine araba, men che meno verso studenti libanesi o palestinesi o iraniani. L'11 settembre ha compiuto 23 anni ma permane la difficoltà nell'accettare che esistono, che sono anche americani, che non sono da equiparare a dei terroristi. Accade meno, forse, ma accade.
7. Clara, in un tuo commento sui social hai scritto che "le proteste sono per ricordare che qui famiglie palestinesi sono state rimosse anche dalla discussione": cosa intendi? Ci puoi fare qualche esempio?
Quello che si nota, anche nelle discussioni che ho avuto personalmente con altri insegnanti, è che sembra che questa guerra riguardi solo le persone israeliane rapite e uccise. Ci sono cartelli ovunque in città dedicati alle persone colpite il 7 ottobre. Ed è giusto ricordarlo, parlarne, sono purtroppo protagoniste di questa storia orrenda. Ma allo stesso modo mi chiedo: dove sono finite le migliaia di persone che stanno morendo a Gaza, i palestinesi con i loro bambini? Qui la conversazione finisce sempre per cancellare un pezzo, l'altra metà della guerra. Gli Stati Uniti fecero così quando andarono in Afghanistan e in Iraq. I civili erano numeri sui media, e si finì per scordare che per cacciare dei terroristi si stavano ammazzando delle famiglie che avevano l'unica colpa d'essere lì.
8. Iuri, tu hai lavorato per tanto tempo alla Indiana University di Bloomington: hai notizie di come è oggi la situazione lì? E in altri campus statunitensi?
La situazione a Bloomington è davvero preoccupante. La sto seguendo con molta amarezza grazie agli aggiornamenti in tempo reale del professor Marco Arnaudo sul suo profilo Facebook. Ti dico solo che la presidente dell'università ha fatto una riunione d'emergenza, di notte, per modificare lo statuto accademico che garantiva agli studenti assoluta libertà di protesta a Dunn Meadow, un grande parco dentro al campus. Lo ha fatto mentre gli studenti stavano già protestando, col risultato che la polizia è arrivata ad arrestare ma - aspetto davvero molto inquietante - che ci sono stati cecchini sui tetti intorno al prato per giorni (questo meme rende bene la situazione). La situazione ora sta un po' migliorando anche perché alle ragioni della protesta pro Palestina si è aggiunta quella per la libertà di parola e espressione, già sancita dallo statuto dell'università nonché diritto scontato in un luogo di studio. Questo ha allargato la base di chi è sceso in piazza.
In altre università, una delle situazioni più calde è a UCLA a Los Angeles, dove molti studenti pro Israele hanno tentato di entrare in contatto con quelli pro Palestina e, soprattutto, hanno escogitato tattiche di disturbo psicologico come musica ad alto volume tutta la notte o video su un maxischermo per farli esasperare e cedere a livello mentale, e dunque provocarli.
9. La protesta si sta allargando in tutto il Paese, includendo anche high schools e unendo diverse cause legate ai diritti civili, da Black Lives Matter ai movimenti delle Persone Indigene. La guerra a Gaza, come era stato alla fine degli anni Sessanta con quella in Vietnam, sta obbligando gli Stati Uniti a ripensare al proprio sistema di valori o, almeno, alle sue alleanze?
Iuri: Vorrei tanto dirti di sì, ma per il momento non mi pare. L'amministrazione Biden non ha fatto ancora nulla per impedire l'escalation di violenza e puro massacro dell'esercito israeliano e solo due settimane fa il Parlamento USA ha approvato aiuti militari a Israele e Ucraina per più di 60 miliardi di dollari, quindi armi su armi, ancora e ancora. L'unico modo per fermare Netanyahu sarebbe togliergli apertamente il supporto politico, ma gli USA hanno troppi altri interessi e timori (l'Iran, il Libano, la Siria) per poterlo fare davvero. A livello di società civile, invece, quello che sta accadendo a Gaza è davvero un limite che non si sarebbe dovuto superare e sta sicuramente aiutando molti a ricontestualizzare il ruolo del loro Paese.
Clara: Secondo me le proteste attuali, in questo preciso istante, non stanno muovendo di un millimetro la coscienza politica né l'agenda del Paese. Magari succederà di scoprire le conseguenze delle proteste alle elezioni, con un forte assenteismo o una forte radicalizzazione, ma la mia sensazione è che non siano ancora mature o, purtroppo, gravi abbastanza da cambiare qualcosa.
10. Una cosa che preoccupa molto gli Italiani: se e quando Trump dovesse vincere a novembre, dovremo "ringraziare" gli studenti?
Iuri: Non credo. Innanzitutto perché finora Trump si è espresso poco sulla faccenda rispetto ad altri politici Repubblicani. E poi perché lo zoccolo duro del suo elettorato considera le proteste e gli studenti parte del "nemico" generale che odia da sempre: i liberal, quelli più ricchi che possono permettersi università iper costose, eccetera. In sostanza, gli studenti si aggiungono a una lunga lista di categorie odiate a prescindere e irrazionalmente grazie alla demagogia di Trump, a sua volta un uomo molto ricco. Più che altro, temo che Trump abbia serie chance di vincere a novembre e questo mi mette molto in agitazione: ho vissuto il suo primo mandato e ricordo la sua totale incapacità e impreparazione, che il COVID ha messo in luce incontrovertibilmente, e non so se sopporterei altri quattro anni di continuo nonsense.
Clara: Assolutamente no. Il problema reale è che non esiste un'alternativa né democratica né repubblicana, quello è il motivo per cui potrebbe vincere Trump. E l'altro motivo è che, forse, quando è successo il 6 gennaio, si sarebbe dovuto riflettere meglio su cosa ha significato e sulla sua gravità. Magari oggi avremmo un altro nome accanto a Biden.
Personalmente - e qui riprendo la parola - ritengo Biden e il suo entourage (oltre che buona parte del suo Partito) l’unico responsabile delle sue scelte, molte delle quali vengono prese in totale opposizione alle richieste di una parte minoritaria ma nondimeno decisiva del suo elettorato (dagli arabo-americani del Michigan di cui io e Luciana Grosso abbiamo parlato qui ai giovani in protesta, come puoi ascoltare alla fine del video che ho condiviso qui sopra) e dunque l’unico responsabile della sua eventuale sconfitta elettorale di novembre. Di cui sembra, al momento, non avere alcuna preoccupazione. O, meglio, chiudendo il cerchio aperto nell’introduzione: non sembra averne interesse a tal punto da mettere in discussione l’interesse maggiore, ovvero l’appoggio a Israele in tutte le sue forme, inclusa quella culturale.
Ringrazio infinitamente i miei ospiti per le loro risposte e per averci dato la possibilità di avvicinarci con puntualità a un pezzo di attualità molto importante e altrettanto strumentalizzato. Ringrazio anche te per aver letto le loro parole con attenzione e fino alla fine. Ho ancora due comunicazioni molto importanti da dare, sarò breve ma intensa!
Corsi e tour dei Book Riders
Mercoledì 29 maggio comincerà un corso online di 6 ore (4 appuntamenti di 90 minuti) dedicato a Cormac McCarthy: è un’introduzione alla lettura di alcune sue opere, di cui puoi leggere i dettagli qui, inclusi quelli lezione per lezione. So che questa è un’iniziativa che stavano aspettando molte persone e sono contenta di poterla realizzare con Parole Migranti, con cui collaboro per la prima volta.
Avrei voluto dedicare a questa notizia più spazio, ma l’attualità ha avuto il sopravvento e recupererò senz’altro prossimamente. Questo autunno ci saranno due tour dei Book Riders: Colorado Roots e Lit PNW. Quest’ultimo sarà proposto per l’ultima volta, poi verrà sospeso e messo in soffitta insieme ad altri e in particolare: Two Illinois, Rockin’ Jersey e Rollin’ California. Il mio percorso giornalistico degli ultimi tempi si sta raffinando intorno a temi e approcci che vogliono decolonizzare il nostro sguardo e prediligere l’inclusione e la molteplicità etnica e culturale. In altre parole, trovo che ci siano zone e storie degli Stati Uniti decisamente più rappresentative e reali rispetto a quelle molto bianche, molto maschili e molto mainstream. Che sono quindi quelle che vanno in soffitta. Invito quindi chi vuole partecipare a rendersi disponibile a questo tipo di approccio e a scegliere i Book Riders per ciò che sono :)
Le iscrizioni sono aperte (clicca sui nomi dei tour per scoprire date e prezzi), anche se i posti disponibili già scarseggiano perché le persone iscritte a LIT - che hanno la precedenza - si sono dimostrate molto interessate. Se vuoi partecipare rispondi comunque a questa mail e vediamo come si mettono le cose tra conferme, disdette e liste d’attesa!
Noi ci risentiamo qui tra tre settimane (non due come al solito) e con la solita frequenza sulla membership e su States! Grazie.