7 domande a Erica, operatrice umanitaria
Con lei parliamo dei tagli allo sviluppo internazionale voluti da Trump e Musk, del legame tra colonialismo e aiuti umanitari, di chi beneficerà del posto lasciato vuoto dagli Stati Uniti
Questa è una nuova rubrica di Sogni Americani: raccoglie le voci di persone esperte che vivono negli Stati Uniti o ci lavorano a stretto contatto. Ospita esperienze e testimonianze diverse in un format che però rimane identico: 7 domande, la prima e l’ultima uguali per tutti e tutte, una storia di bonus alla fine. Le interviste vengono poi raccolte in una nuova sezione, facilmente accessibile da qui.
Un mese fa l’amministrazione Trump ha deciso di congelare e poi tagliare la stragrande maggioranza dei fondi federali destinati allo sviluppo e all’aiuto internazionale. In particolare, quelli destinati all’agenzia chiamata USAID. La decisione del Presidente, resa concreta dal Dipartimento per l’Efficienza capitanato da Elon Musk, non solo ha generato caos e licenziamenti in tutto il mondo, ma ha anche reso vacante il ruolo di leader della cooperazione mondiale, fino a oggi ricoperto dagli Stati Uniti.
Due giorni fa la Corte Suprema ha bloccato questi tagli, ma al momento la situazione rimane incerta e precaria.
Ho voluto che questa storia enorme arrivasse qui in Sogni Americani attraverso la voce e l’esperienza di una professionista del settore, per capire insieme innanzitutto di cosa parliamo quando parliamo di USAID e poi per affacciarci attraverso la sua testimonianza a una grandissima finestra sul futuro.
Ciao Erica [per ragioni di riservatezza usiamo solo il nome]. Grazie di esserti resa disponibile per questa intervista. Luci su di te: chi sei e che cosa fai?
Grazie, Marta, per questo spazio! Sono Erica e quasi vent’anni fa ho lasciato Torino per lavorare nel mondo della cooperazione internazionale. Attualmente vivo a Nairobi e lavoro per un’agenzia delle Nazioni Unite, nell’ufficio regionale che si occupa di ventuno Paesi in Africa Orientale e Australe. In passato ho lavorato anche in Medio Oriente e in America Latina, con agenzie delle Nazioni Unite e ONG internazionali.
Mi occupo principalmente di programmi per la protezione dei diritti di donne e bambini. Al momento, il mio lavoro si concentra soprattutto sull’assistenza tecnica ai nostri uffici nella regione: promuoviamo scambi, ci occupiamo di monitoraggio e supportiamo l’implementazione dei progetti. Da qualche anno mi occupo anche di garantire che i nostri interventi siano sempre sicuri per i bambini e le bambine e che le comunità in cui operiamo possano partecipare attivamente ai programmi, avendo la possibilità di esprimere un parere sul nostro lavoro.
Ovviamente questo lavoro è una parte fondamentale della mia identità, ma mi piace pensare che non sia l’unica. Sono anche una lettrice appassionata, una viaggiatrice instancabile, un’atleta mancata che ama tutte le competizioni sportive, e ovviamente, a proud member del LIT [♥].
Dalla tua prospettiva, che cosa è USAID e in che modo è stata presente nel tuo lavoro?
USAID è stata un’agenzia di cooperazione generosa che per anni ha finanziato enormi programmi di sviluppo e di emergenza umanitaria in vari settori, dalla salute (prevenzione dell’HIV, salute materna e neonatale, programmi contro la malnutrizione) al rafforzamento dei sistemi di welfare, fino alla lotta al terrorismo e ai programmi di promozione della convivenza pacifica e prevenzione dei conflitti (peacekeeping). La mia organizzazione ha sempre ricevuto finanziamenti importanti dal governo americano – circa il 30% del nostro bilancio attuale dipende da fondi americani. (Nonostante l’enorme investimento e l’impatto dei programmi USAID, questi fondi rappresentano meno dell’1% di tutto il bilancio federale degli Stati Uniti).
In tutti i contesti in cui ho lavorato (Medio Oriente, Africa Occidentale e Orientale, Sud America), USAID era sempre presente con enormi investimenti nei programmi di emergenza e sviluppo. Ovunque era possibile vedere i famosi cartelli giganti su cliniche o scuole sostenute dai progetti USAID, con il classico messaggio: From the American People – segno di quanto gli Americani usassero gli aiuti e gli investimenti nella cooperazione internazionale anche per presentarsi al mondo come un popolo generoso, attento ai bisogni di altri Paesi. Un approccio forse un po’ ingenuo e anacronistico, ma profondamente legato alla visione della cooperazione degli anni Sessanta, quando USAID è nata. In generale, posso dire, senza dubbi, che USAID era un’agenzia che poteva contare su personale altamente specializzato, un’organizzazione che ha elaborato programmi fondamentali per il miglioramento delle condizioni di vita di un numero quasi incalcolabile di persone su quattro continenti.

In seguito alle decisioni di Trump e Musk delle ultime settimane hanno già chiuso numerose iniziative di sviluppo in tutto il mondo. Cosa è cambiato in concreto per te e per i tuoi progetti?
Con il congelamento dei fondi deciso a gennaio e la successiva decisione di bloccare quasi il 95% di tutti i programmi finanziati da USAID, l’impatto sul nostro lavoro è gravissimo. Questo significa interrompere, senza neanche una fase di transizione, programmi che promuovono l’accesso alla salute, all’educazione e ai servizi sociali per milioni di persone, anche in contesti di emergenza come il Sudan, l’Ucraina, la Palestina e la Repubblica Democratica del Congo.
Significa anche arrestare il lavoro di promozione dei diritti umani, la ricerca medica e la prevenzione dei conflitti (e molto altro). Comporta, inoltre, una significativa perdita di posti di lavoro, non solo per il personale di USAID e delle Nazioni Unite (dove ci aspettiamo probabilmente un taglio dal 20 al 30% del nostro personale), ma anche per tutte le persone impiegate nei programmi a livello locale. Solo in Kenya si parla di 20.000 licenziamenti nel settore medico-sanitario, e potrebbe essere solo la punta dell’iceberg.
Le decisioni di politica estera degli Stati Uniti, in particolare riguardo all’Ucraina, hanno influenzato anche la scelta di altri governi di ridurre i fondi destinati alla cooperazione internazionale. Il Regno Unito ha già annunciato un taglio cospicuo delle risorse per la cooperazione (40%) per finanziare l’aumento delle spese militari. C’è il timore che questo sia solo l’inizio.
Un altro effetto delle attuali scelte dell’amministrazione Trump è una forte messa in discussione dei programmi di DEI – Diversity, Equity and Inclusion – che per noi sono stati fondamentali per creare un ambiente di lavoro inclusivo, rappresentativo di tutte le nazionalità e minoranze. Non solo: questi programmi sono stati essenziali per finanziare iniziative a sostegno delle minoranze e delle persone con disabilità in tantissimi Paesi.
In generale, in pochi giorni ci siamo ritrovati in un mondo che sembra aver dimenticato rapidamente i valori alla base di questo settore: la solidarietà, l’umanità, il sostegno alla diplomazia e al multilateralismo per la risoluzione dei conflitti, valori da cui dipende la stessa esistenza delle Nazioni Unite. The end of the world as we know it, nel nostro settore.
Non beneficenza ma strategia: gli aiuti umanitari non sono mai soltanto generosità o carità, servono al contrario a creare equilibri e relazioni di potere. Secondo te, chiudere i programmi di USAID nel mondo è stata una scelta strategica per l’America? Chi beneficerà del vuoto lasciato dagli Stati Uniti?
Non credo sia stata una decisione strategica. Il lavoro di USAID ha sempre contribuito alle scelte di politica estera degli Stati Uniti: persino la decisione di finanziare un programma in un Paese piuttosto che in un altro è sempre stata una scelta politica. La cooperazione americana, il lavoro di USAID era un’importante forma di esercizio del soft power, utile a generare alleanze, accedere a nuovi mercati e siglare importanti accordi commerciali. Poteva inoltre contribuire a limitare l’immigrazione e a promuovere la sicurezza americana.
La nuova amministrazione ha deciso di rivedere tutti i programmi sulla base di tre semplici domande: Does it make America safer? Does it make America stronger? Does it make America more prosperous? A prima vista, questo approccio può sembrare sensato, ma non tiene in considerazione la complessità delle relazioni internazionali. Si tratta di un processo che semplifica eccessivamente la realtà e che ignora l’impatto e la storia del settore, una caratteristica tipica di questa amministrazione e di chi la influenza (Elon Musk: semplificare al massimo, pensare di avere soluzioni semplici per tutti i problemi, anche i più complessi).
Da tempo, un certo spazio è stato conquistato dalla Cina, che investe in Africa e in America Latina in modo molto sistematico, accedendo ai mercati locali (dove si trovano ormai tutti i tipi di prodotti cinesi) e alle risorse naturali, oltre a costruire grandi infrastrutture. Queste ultime sono utilissime, ma rischiano di aumentare in modo smisurato il debito dei Paesi che ne beneficiano, rendendoli dipendenti dall’alleato cinese. L’approccio cinese non prevede la promozione di valori, né il sostegno ai servizi medici o sociali: non si dedica all’aiuto, ma si concentra sul business. Non voglio dire che questo sia di per sé sbagliato – gli effetti di questa egemonia in fieri sono ancora oggetto di studio – ma il rischio di una nuova forma di dipendenza economica potrebbe avere conseguenze importanti.
Altri attori interessati ai mercati e alle risorse di molti Paesi africani e latinoamericani sono la Turchia e vari Paesi del Golfo. Questi ultimi si sono affacciati anche al mondo della cooperazione come donatori/finanziatori di progetti di sviluppo, con le proprie priorità in termini di valori da promuovere e contesti da supportare. Sono particolarmente interessati al Medio Oriente, ma anche ad altri scenari. Questa strategia potrebbe far parte di una più ampia volontà di presentarsi come benefattori, modificando la percezione di Paesi spesso considerati autoritari e radicali dal punto di vista religioso.
Anche alcune fondazioni private stanno acquisendo un peso importante negli aiuti, come la Bill & Melinda Gates Foundation e Mastercard Foundation. Non è necessariamente un male, ma anche qui esiste il rischio che interessi e condizionalità di questi attori possano influenzare il settore, rendendolo meno indipendente e imparziale.
Qualche giorno fa l’intellettuale keniano Patrick Gathara in un articolo su AlJazeera (tradotto in italiano da Internazionale) ha criticato fortemente l’umanitarianesimo dell’Occidente definendolo uno “strumento di controllo geopolitico” e “un mezzo per mantenere, anziché eliminare, le disuguaglianze globali”. L’attività umanitaria dell’Occidente ha senz’altro un legame con il colonialismo, se non nel presente di sicuro in un’ottica storica: in che modo descriveresti questa relazione?
Certo, l’attività umanitaria ha un legame con il colonialismo. In un certo senso, l’aiuto allo sviluppo è anche un modo per risarcire i Paesi che hanno subito il colonialismo e che non hanno avuto opportunità di sviluppo perché sfruttati dall’Occidente. Tuttavia, esiste anche una forte componente legata all’utilizzo degli aiuti per ottenere e mantenere una certa influenza in un determinato Paese o regione. Non è un caso che molti dei Paesi che ricevono più aiuti siano spesso ex colonie di Stati europei. L’aiuto può generare dipendenza e bloccare iniziative di sviluppo locale e alleanze regionali di successo.
Si è parlato molto negli ultimi anni anche di decolonizzare l’aiuto umanitario e allo sviluppo, combattendo l’idea e gli approcci da “white savior”, ovvero la figura dell’occidentale che insegna e aiuta i “poveri” africani, sudamericani, arabi, ecc. Sono stati fatti sforzi significativi per garantire che le comunità locali abbiano voce in capitolo e per slegare l’agenda politica dai programmi di emergenza o sviluppo, rispettando realmente i principi di indipendenza e imparzialità che dovrebbero guidare il nostro lavoro.
Anche per me è stato un percorso di apprendimento, che mi ha portato ad abbandonare l’idea dello sviluppo inteso come insegnamento e aiuto, per abbracciare invece un approccio basato sullo scambio e sulla collaborazione. L’obiettivo dovrebbe essere contribuire alla ricerca di soluzioni locali, promuovendo proprio expertise e i sistemi locali. Il mio ruolo attuale include anche il sostegno ai programmi che amplificano le voci delle comunità in cui lavoriamo, promuovono la loro partecipazione alla progettazione e tutelano il loro diritto di esprimere critiche quando i programmi o servizi non funzionano come dovrebbero. C’è ancora moltissimo da fare in questo ambito e, più in generale, per rendere il settore più efficiente, ma stavamo cercando di migliorare. Purtroppo, ora questi tipi di programmi e approcci potrebbero essere i primi a essere tagliati.
Considerando la profonda crisi che attraverserà il settore umanitario, pensare a soluzioni alternative all’aiuto allo sviluppo è sicuramente importante in questo momento storico: promuovere un commercio più equo, incentivare alleanze regionali e accordi commerciali giusti (che non relegano i Paesi a essere semplici esportatori di materie prime o manodopera a basso prezzo), favorire più scambi culturali. La lista è sicuramente più lunga, ma la discussione è già iniziata e spero che continui, guidata dalla leadership dei Paesi che per anni hanno ricevuto aiuti e non vogliono più dipendere dal sostegno dell'Occidente.
Vorrei che ci descrivessi il tuo ambiente di lavoro oggi, ma usando le emozioni: cosa provate?
È stato un terremoto. Ci sentiamo disorientati e quasi impauriti. Siamo sicuramente ansiosi, ma anche arrabbiati e, oserei dire, disgustati dall’idea che un paio di persone si comportino da bulli e decidano di cambiare l’ordine globale in meno di due mesi! In questa situazione, però, mi sono anche sentita ancora più motivata a portare avanti questo lavoro nel miglior modo possibile, nonostante l’incertezza sul futuro. Credo sia il mio modo per cercare di resistere in questo caos.
Se potessi viaggiare indietro nel tempo e cambiare qualcosa nella storia degli Stati Uniti, cosa cambieresti e perché?
Che bella domanda! Mi ha fatto ripensare ai tempi dell’università, quando studiavo Storia degli Stati Uniti. Sarebbe facile rispondere scegliendo il 2023, l’errore di aver sottovalutato (di nuovo!) Trump e di non aver pensato a un’alternativa a Biden.
Ma andrò un po’ più indietro. Tornerei agli anni Novanta, quando, ai tempi di Clinton, gli Stati Uniti hanno creduto e promosso un’idea di globalizzazione economica che ingenuamente pensavano avrebbe generato ricchezza e progresso ovunque. Nonostante alcuni effetti positivi, ha invece alimentato enormi disuguaglianze a livello globale, una forte resistenza ai valori considerati occidentali (basti pensare al radicalismo religioso come forma di opposizione) e profonde disparità anche all’interno degli Stati Uniti. Molti di coloro che sono rimasti ai margini, che non hanno beneficiato di quel modello economico – come i lavoratori dei settori manifatturieri più colpiti – oggi molto probabilmente votano Trump. Credo che sia in quel momento che si siano create fratture profonde, sia all’interno degli Stati Uniti che a livello globale. Tornerei indietro, farei un’analisi più attenta delle conseguenze di quelle scelte economiche e ne limiterei la portata.
Bonus: regalaci una storia, quella che vuoi.
Stavo pensando a una lista di libri, ma poi ho cambiato idea. Questa discussione mi ha fatto pensare molto a due canzoni:
La prima, Africa for Africa di Femi Kuti, il figlio di Fela Kuti, il re dell’afrobeat: è una canzone che invita le donne e gli uomini africani a unirsi, a prendersi cura della propria terra e a esserne orgogliose e orgogliosi. A resistere. [Testo]
La seconda è Latinoamérica della band portoricana Calle 13. Parla dell’America Latina, della sua complessità e ci ricorda che, nonostante tutto, non è tutto in vendita: non si può comprare il vento, la pioggia, l’allegria delle persone. [Testo]
Entrambe aiutano a ricordarmi e spero ricordarvi che possiamo sempre guardare altrove, che i punti di riferimento possono essere altri, anche per noi!
Grazie di cuore, Erica. Da parte mia e di tutte le persone che sono qui.
Novità e appuntamenti
Questa newsletter racconta gli Stati Uniti attraverso storie di persone, luoghi e libri. Storie che devono convergere in qualche tipo di risveglio, visto che l’idea di “sogno americano” è sotto esame da tempo. La maggior parte delle volte i miei pezzi riguardano zone e comunità in ombra o dinamiche controverse della società americana. La letteratura e soprattutto la narrazione sono un sottotesto costante di queste storie ma altre volte scelgo di mettere i libri in primo piano e ne parlo esplicitamente attraverso recensioni, approfondimenti, elenchi e percorsi. Ho creato quindi una categoria chiamata LIBRI, attraverso la quale si può arrivare facilmente a queste newsletter: un archivio di facile consultazione, proprio come quello delle INTERVISTE che nasce oggi.

Nel corso degli ultimi vent’anni, dall’università a oggi, il mio sguardo e il mio lavoro sugli Stati Uniti sono cambiati, si sono adattati ai tempi, sono diventati più profondi e complessi. Tra punti fermi, percorsi contraddittori e analisi del presente, ho raccontato alcuni highlights di questi vent’anni nell’ultima puntata del podcast Curiusaty di Daniele Bencivenni.
Domani (domenica 9 marzo) esce una nuova puntata di Miglia, il mio podcast di esplorazione e racconto on the road degli Stati Uniti, riservato alle persone abbonate. L’ultima volta, a febbraio, ci eravamo sentiti da Little Rock, Arkansas, in faccia ai provvedimenti di Trump contro le persone queer e trans: è qui, infatti, nel cuore della più profonda Rust Belt, che è nato il concorso di drag queens più antico d’America. Puoi abbonarti da qui, recuperando anche tutte le tappe precedenti.
Vediamoci:
Il 12 marzo alle 18 sarò alla Biblioteca Civica Battisti di Bolzano per un intervento su America reale e letteraria aperto al pubblico.
Il 29 marzo racconterò l’ideazione e l’esperienza dei Book Riders al Corso di formazione in Turismo letterario di Pistoia alle 16.
Il 15 aprile sarò in dialogo con Loretta Bersani al Caffè Fellini nella mia adorata Houston in orario aperitivo, per parlare del mio libro e di tutto quello che sta succedendo in America, insieme a chi vive lì.
A proposito di Houston: il libro di marzo del mio bookclub, LIT, è L’uomo autentico di Don Robertson, che è ambientato lì. Le persone iscritte riceveranno la mail di convocazione tra una decina di giorni. C’è ancora tempo per riprendersi dalla lettura e dalla discussione di febbraio, entrambe belle toste :)
Sogni Americani torna tra due sabati, con altre storie e altre (vistose) novità. Grazie di avermi seguita fin qui oggi e ancora grazie a Erica, non avrei potuto avere madrina migliore per inaugurare la rubrica, ciao!