È da molte ore che penso a cosa scrivere qui oggi. A cosa raccontare. Qualsiasi cosa mi venga in mente mi sembra inutile. E dire che di cose ne sono accadute moltissime nelle ultime due settimane: l’ordine esecutivo firmato da Trump per vietare la presenza di donne transgender nelle squadre femminili delle scuole americane, alcuni dei più grandi giornalisti di settore che si licenziano da New York Times e CNN, Elon Musk che entra in possesso dei numeri di previdenza sociale di tutti i cittadini e le cittadine degli Stati Uniti, Gaza come Gaz-a-Lago, due disastri aerei in due giorni, le scuole e le chiese che non vengono più considerate luoghi sicuri ma vengono pattugliate dallo United States Immigration and Customs Enforcement (il cosiddetto ICE) per identificare persone (anche molto giovani) senza documenti e deportarle, i dazi contro il Canada e il Messico (minacciati, poi attivati, poi rimandati), il ritiro degli Stati Uniti dalle più importanti agenzie umanitarie delle Nazioni Unite, dimentico senz’altro qualcosa ma ogni giorno è così fino al mattino dopo.
Il rumore che crea Trump è sempre troppo. Anche in risposta. Il volto degli Stati Uniti è fosco e ben poco affascinante, e non certo da questo mese.
Ecco perché questa newsletter è così difficile oggi: fosse per me starei in silenzio. Le cose importanti a cui tenersi saldi in momenti critici come quello che stiamo vivendo passano, secondo me, attraverso il silenzio e possono trovarsi in un libro, nel tè con i genitori anziani, nella meditazione, nel sudore, nel contatto con l’acqua, nei passi, nella sensazione dell’aria, nelle lacrime, nell’ascolto del corpo di un altro. Nei dettagli di realtà, insomma, nell’umanità vissuta fuori dai canali d’informazione e di intrattenimento come quello su cui ti trovi in questo momento. Per poi tornarvi con più lucidità e soprattutto empatia.
Se oggi vogliamo lasciarci qui, quindi, per me è ok, possiamo darci appuntamento tra due sabati e dedicare le prossime ore al silenzio e al recupero di almeno una o due delle cose che questo rumore ha recentemente coperto, anche attraverso le sensazioni di spaesamento, confusione e paura che è riuscito a trasmetterci.
Non sono qui da sola, tuttavia. So che diverse persone - non tutte, ma in effetti ne basta anche solo una - al caos reagiscono in modo diverso dal mio e si aspettano qualcosa da una newsletter a cui hanno scelto di abbonarsi per conoscere meglio gli Stati Uniti. A queste persone e a te, se sei tra queste, voglio allora raccontare una storia che è fatta in parte del silenzio che personalmente anelo e di dettagli piccoli come perline. Una storia che non fa rumore ma che starà in mezzo all’evento più rumoroso dei prossimi giorni - il Super Bowl -, dandogli persino un volto. Anzi dandogli proprio vita. Penso possa servirci come metafora o ispirazione, sarà quella cosa di cui conserveremo un ricordo quando si sarà posata la polvere.
Domenica 9 febbraio 2025 si gioca il 59esimo Super Bowl della storia della National Football League e lo si gioca a New Orleans. Al di là della baraonda mediatica, sportiva e pop di questo evento (già appassionatamente raccontata qui, ai bei tempi), troviamo una ragazza di 26 anni di nome Tahj Williams, meglio conosciuta in città con il nome di Queen Tahj. È stata lei ad aver disegnato e realizzato il logo del match più atteso e visto dell’anno: la prima donna e la prima donna nera a cui è stato affidato l’ingente compito. Che lei ha portato a termine scegliendo di onorare la propria città, New Orleans appunto, e soprattutto una delle sue sottoculture più significative ma nascoste, quella del Black Masking Indians.


Durante l’Ottocento molti degli schiavi della Louisiana in fuga dalle piantagioni e dai loro padroni trovarono rifugio e protezione nelle tribù locali dei Nativi (quelle che all’epoca erano rimaste in quel territorio). Come tributo verso di loro e verso la solidarietà che dimostrarono, gli eredi di quegli schiavi e, in generale, buona parte della comunità afroamericana di New Orleans realizza a mano delle maschere “indiane” di pregevole e complicata fattura, con piume, perle e ornamenti coloratissimi, che poi indossa e sfoggia durante il Mardi Gras e altre manifestazioni simili, mettendo in scena danze, canti, parate e sfide di diverso tenore, lontano dai luoghi dove intanto si svolgono quelle ufficiali.
Uno spettacolo locale, questo, che si rinnova di anno in anno, lontano dal clangore del French Quarter dove nel frattempo avvengono le sfilate del Carnevale più turistiche e famose (e bianche). Uno spettacolo colorato e gioioso di cui ha fatto parte anche Tahj da quando era piccola, fino ad essere nominata Queen qualche anno fa e adesso anche interprete ufficiale sul palcoscenico più mainstream, affollato e rumoroso del Paese, quello del Super Bowl.
Come racconta lei stessa in questa intervista, la tradizione di realizzare e indossare costumi e maschere indigene ha il potere di riconnettere la comunità Black al proprio passato e al proprio orgoglio, ai tempi in cui ai neri era vietato partecipare al Mardi Gras nel centro città ma in quella periferia che è da sempre stata una condizione ancor prima esistenziale che fisica non gli si poteva certo impedire di creare una propria festa, una propria ritualità. Fino a oggi, almeno, oggi che il centro lo si è conquistato, senza però riuscire a fare abbastanza notizia da silenziare il resto.
Se ti capiterà di guardare il match o alcuni suoi highlight, togli il volume, ferma l’immagine e ricordati di lei, allora, di Queen Tahj che attraverso il silenzio del cucito racconta una vecchia storia di amicizia, protezione e umanità.
Appuntamenti
Questo mese LIT, il bookclub della McMusa, leggerà la raccolta di racconti di Roxane Gay Donne difficili. Il podcast Miglia, dopo una splendida visione di New York dagli occhi di Nairobi, entrerà nella notte rivoluzionaria di una famosa città della Bible Belt, mentre la newsletter Mac&Cheese ci riporterà alla politica di queste settimane con un’ospite speciale, dopo aver raccontato a gennaio la storia di un inseguimento mediatico molto inquietante. Questi contenuti fanno parte della membership, a cui puoi iscriverti quando vuoi con il pacchetto che vuoi, recuperando anche le puntate precedenti.
Che tu sia qui da un giorno o da sempre, avrai visto il ritratto che da 10 anni caratterizza il mio lavoro nel mondo digitale. È la foto su sfondo rosso che c’è nel tondino in alto accanto al nome La McMusa qui sulla newsletter o l’immagine che ho usato per anni sui social come omaggio alla copertina di Born in the USA di Bruce Springsteen.
Ecco, questo ritratto l’ha realizzato Elena Datrino, fotografa professionista e grande amica, per un progetto che prese forma allora proprio per raccontare i volti e le storie di alcuni blogger. Si chiamava, non per niente, Facce da blogger.
Cosa ne è stato di loro, di noi, in questi 10 anni? Qual è l’eredità di quel momento così creativo per il web e così ben catturato da Elena? Come sono invecchiate le nostre facce e i nostri progetti? Ne parliamo insieme al Museo Bagatti Valsecchi, in via Gesù 5, a Milano, mercoledì 12 febbraio alle 18.
Ma c’è di più. Una piccola anticipazione: la mia faccia pubblica molto presto cambierà. Mostrando tutto il significato di questi 10 anni trascorsi dal primo ritratto di allora, ma ancora nel segno del rock e soprattutto di Elena. Non vedo l’ora!
Grazie, ci sentiamo tra due sabati. Buon silenzio.