Sogni Americani
Sogni Americani
I presupposti erano altri
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I presupposti erano altri

E avevano a che fare con due idee che nel tempo erano diventate persino sinonimo di America, ma oggi non esistono più: mobilità e possibilità.
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Capita ancora che mi chiedano che cos’è il sogno americano. O se, almeno, il sogno americano esista ancora. Questa newsletter si chiama Sogni Americani, sostenere che non esista più o che sia morto - come spesso vorrei fare, in quelle occasioni - sarebbe un controsenso o, come minimo, una sbrigativa e dannosa semplificazione.

Il sogno americano è cambiato. Ha più senso dire questo. Non tanto e non solo rispetto alla forza propulsiva che esercitava su chiunque guardasse agli Stati Uniti da fuori fino a qualche tempo fa, ma soprattutto per chi ci vive dentro, per il popolo americano, le cui dinamiche sociali di oggi sono in grande contraddizione rispetto a quelle del passato e rispetto ai loro stessi fondamenti. Il sogno americano è cambiato - infatti - nei suoi presupposti, e questo cambiamento spiega moltissime cose che oggi abitano la superficie dell’attualità e del discorso pubblico. Trump, la violenza, il suprematismo bianco, la povertà, l’intolleranza verso l’altro, l’erosione delle libertà, quella che un pezzo interessantissimo dell’Atlantic chiama la sclerosi che sta interessando il Paese e che lo ha portato a un passo da - o forse già dentro - l’autocrazia.

Questi presupposti erano (sono) la mobilità e le possibilità. Due fili rossi che hanno intessuto trame profondissime e gigantesche nel sistema America (da tutti i punti di vista: sociale, culturale, politico, geografico, economico, ecc.) e che è utile mettere a fuoco per spiegarsi quello che apparentemente risulta inspiegabile. Non è un caso, infatti, che alla fine, quando si tratta di rispondere alla domanda che citavo in apertura, dopo un primo momento che potremmo definire nichilista a me venga sempre in mente una storia che lessi anni fa (non riesco a ritrovare la fonte ma sto per riassumerla qui) e che in appena cinque minuti, il tempo di lettura richiesto, mise il caos in ordine.

Il sogno americano è cambiato quando gli Americani hanno smesso di intendere lo spazio e il movimento nello spazio (che è senz’altro un’eredità strutturale del mito del West) come la soluzione ai loro problemi, quando hanno cioè smesso di pensare che in altre città o zone del Paese potessero costruirsi un futuro migliore e hanno scelto di restare dove stavano, lamentandosi per ciò che gli era stato tolto: lavoro, stabilità e, ovviamente, possibilità.

Questo passaggio è cominciato negli anni Settanta del Novecento con la de-industrializzazione (ovvero fabbriche che davano da lavorare a interi piccoli centri e poi chiudevano, lasciandoli senza alternative); dagli anni Dieci dei Duemila si è sclerotizzato al punto da diventare il noto malcontento che favorì l’ascesa di Trump; oggi si è estremizzato tanto da costituire la base morale su cui molte persone - da chi sta al governo alle folte categorie di elettori ed elettrici che votano - si definiscono e si determinano in quanto americane: la conservazione, la recriminazione, il ricatto, la chiusura verso l’esterno e il diverso.

Ti sarà capitato di leggere o di ascoltare analisi italiane e internazionali (ne ho parlato anche io qui e soprattutto qui, ad esempio, ma il contributo migliore se non proprio indispensabile arriva dall’ultimo saggio di Matthew Desmond, da recuperare assolutamente) che hanno individuato la povertà come fattore comune di elettori ed elettrici di Trump: in apparenza paradossale visto che Trump è un miliardario newyorchese, questo legame è in realtà perfettamente comprensibile alla luce del suddetto cambiamento del sogno americano per come lo si intendeva. Non è tanto o soltanto la mancanza di soldi a rendere povere le persone in America, infatti: è piuttosto l’esautorarsi delle possibilità, il fatto che la maggioranza o quasi delle persone non ritenga più possibile intraprendere un percorso di crescita economica basata (anche) sullo spostamento e la mobilità, ma percepisca al contrario di essere bloccata o sfavorita da un sistema che le penalizza. Quel sistema che Trump promette di smantellare.

Più sei povero, più sei immobile e più sei povero, in sostanza. Dove una volta era: più sei povero, più ti muovi e meno sei povero (la letteratura americana è piena di storie così). Sia come individuo, sia come società, che da quella mobilità riceveva produttività e creatività, e dava l’esempio a tutto il mondo. O, almeno, incantava e attirava.

Uno dei nodi più interessanti di questo processo riguarda, infine, alcune delle cause che hanno generato questo sentimento diffuso, nonché uno dei fenomeni che dal mio punto di vista facciamo più fatica a comprendere da qui: quanto le grandi città con la loro popolazione liberale e progressista siano diventate luoghi del privilegio, chiuse in se stesse e per nulla disposte - sia per i costi che per le scelte deliberate degli abitanti - a cambiare e a investire risorse di ogni tipo per accogliere chi sarebbe stato disposto a spostarsi.

Whatever its theoretical aspirations, in practice, progressivism has produced a potent strain of NIMBYism, a defense of communities in their current form against those who might wish to join them. Mobility is what made this country prosperous and pluralistic, diverse and dynamic. Now progressives are destroying the very force that produced the values they claim to cherish.

Lo scrive appunto il giornalista Yoni Applebaum nel pezzo dell’Atlantic che citavo poco fa: nonostante i progressisti si proclamino difensori di valori come il pluralismo e l’inclusività, hanno di fatto distrutto la forza primaria che creava e favoriva quei valori, ovvero la mobilità. E l’hanno fatto con quella che viene definita una vera e propria corrente del NOT IN MY BACKYARD, non nel mio cortile, il cui messaggio forte e chiaro è: ok l’accoglienza ma non a casa mia.

Di cause ce ne sono state ovviamente anche altre, così come di conseguenze. Tuttavia questo percorso, se ben illuminato, può condurre più facilmente - spero - alla comprensione della prova di forza che questa amministrazione sta esercitando sul sistema dei valori americani, molto più che sulla politica o l’economia.


Appuntamenti vicini

  • La scorsa newsletter ha inaugurato la sezione Interviste di Sogni Americani con un tema che nei giorni a seguire ha avuto parecchia risonanza: il taglio dei fondi a favore degli aiuti umanitari e i conseguenti licenziamenti. Ti consiglio di recuperarla, se non hai ancora avuto modo di leggerla: è uno dei miei contenuti di cui sono più soddisfatta.

  • Il 9 marzo è uscita la puntata di Miglia dedicata a Lincoln Heights, Ohio: un posto dove la resistenza si è attivata e lo ha fatto per iniziativa della comunità Black, qui storicamente molto tenace.

  • Povertà, in America è stata una delle letture del 2024 di LIT, il bookclub della McMusa. Una di quelle per cui ci si è animati di più! La puoi recuperare, se vuoi, iscrivendoti oggi stesso da qui, insieme a tutte le altre. A marzo leggiamo L’uomo autentico di Don Robertson e ci troviamo per discuterne online il 26 marzo alle 21.

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  • Il 29 marzo racconterò l’ideazione e l’esperienza dei Book Riders al Corso di formazione in Turismo letterario di Pistoia alle 16.

  • Il 15 aprile sarò in dialogo con Loretta Bersani al Caffè Fellini nella mia adorata Houston in orario aperitivo, per parlare del mio libro e di tutto quello che sta succedendo in America, insieme a chi vive lì.

Ma le novità non finiscono qui!


La nuova McMusa

I tempi sono cambiati, dicevo. Non solo nella storia grande, però: anche in quella personale.

Dieci anni fa la McMusa si proponeva al pubblico con un’immagine che omaggiava l’energia esplosiva e tutta americana di Bruce Springsteen. Il primo ritratto con cui mi sono fatta conoscere sul web, infatti, riprendeva la copertina di Born in the USA scattata da Annie Leibovitz: la bandiera a stelle e strisce, il rosso, i jeans, una maglietta bianca, io di spalle sorridente.

L’idea era stata di Elena Datrino, così come la realizzazione e tutto il progetto artistico che la sosteneva, Facce da blogger. Una fotografia splendida a cui sono legatissima e che mi ha accompagnata per un’epoca intera, permettendomi - appunto - di essere riconoscibile. Molti e molte di voi la ricorderanno, io ce l’ho stampata a casa, insieme alle cose importanti.

Ma, dicevo, le epoche cambiano: io sono cresciuta, il mio lavoro è maturato, l’energia esplosiva si è trasformata in critica, il sorriso non è più necessario, la bandiera men che meno.

Da oggi il mio ritratto è questo ed è di nuovo firmato da Elena Datrino: ancora una volta un omaggio a una grande icona del rock americano e al fotografo che, perfettamente, un giorno di sole a New York, la ritrasse. Patti Smith e Robert Mapplethorpe, per la copertina di Horses.

Insieme a questa immagine cambiano tante altre cose, molte le hai già viste, altre le conoscerai nel tempo, tutte sono raccolte nei dettagli e nelle emozioni che questa immagine ti trasmette. Non certo grazie a me, ma all’attenzione e al lavoro di un’artista e una professionista che ho la fortuna di chiamare amica.

Rock on.


Ma le novità non finiscono nemmeno qui. Sogni Americani non torna tra due settimane, bensì sabato prossimo, con una cosa fresca. Ciao!

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