Sogni Americani
Sogni Americani
Un giorno tutti diranno di essere stati contro
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Un giorno tutti diranno di essere stati contro

Si intitola così il libro che risponde a una domanda che viene gridata da mesi, almeno nell'animo di alcuni: perché stiamo giustificando e supportando un genocidio? La risposta grida altrettanto forte

Perché siamo noi i cattivi della storia. La manipoliamo.

Il 4 giugno è uscito in Italia per Feltrinelli il saggio di Omar El Akkad, scrittore di origine egiziana naturalizzato canadese e residente da molti anni negli Stati Uniti, dedicato a noi che da ottobre 2023 siamo incapaci di fermare il genocidio dei Palestinesi, che sia perché ci sentiamo totalmente impotenti o - peggio - perché quel genocidio lo giustifichiamo con potentissimi mezzi culturali e di potere (il linguaggio, in primis; il modo di dare le notizie e di fare dichiarazioni) sin dal giorno uno. In italiano il libro si intitola Un giorno tutti diranno di essere stati contro e io ti consiglio, anzi veramente ti esorto e persino ti prego, di procurartelo immediatamente. Leggerlo ti farà male, ma il tipo di male dipenderà molto dalla parte in cui hai scelto di stare fino a oggi (cosa che in cuor tuo sai perfettamente).

Diviso in 10 capitoli, il saggio è introdotto nella sua interezza e anche capitolo per capitolo da alcuni paragrafi scritti in corsivo, che si insediano sulla pagina come un flusso di coscienza, un memento delle immagini dell’orrore che arrivano da Gaza di mese in mese, delle riflessioni che di getto si affacciano alla coscienza dell’autore dopo che le vede, dei frammenti di umanità di cui si sente scarnificare in quanto uomo arabo e in quanto essere umano davanti a quello spettacolo indicibile.

Una sensazione simile, in parte, a quella provata da chi a ottobre di due anni fa ha riconosciuto immediatamente gli strumenti dell’impero in azione; una sensazione a molti e molte di noi invece sconosciuta perché noi non apparteniamo al mondo arabo. Noi apparteniamo all’impero, a quel mondo dei potenti che gli arabi li ha resi i nemici, i sacrificabili, gli abietti, i barbari, i terroristi, con un’operazione di disumanizzazione e spersonalizzazione durata secoli, di cui oggi le persone perbene - quelle che non avrebbero alcun dubbio a definirsi così in Europa come negli Stati Uniti come in Canada - neanche sanno di aver introiettato e favorito: giudicare i Palestinesi meno dignitosi di altre popolazioni è un processo automatico, davanti al loro sacrificio si fa spallucce con la naturalezza delle cose del mondo. Va così, come per le mosche e i topi: li scacci di torno.

Ci sono emozioni che appartengono agli oppressi, ci sono responsabilità che devono prendersi gli oppressori se e quando riescono a intercettare le prime. E a mettersi in discussione, iniziando dallo strumento principale attraverso il quale si sta nel mondo, che qui in Sogni Americani conosciamo benissimo: le parole.

L’impero è rinchiuso nella sua fortezza linguistica - una lingua attraverso il cui prisma gli edifici non vengono mai distrutti ma bruciano spontaneamente, in cui le esplosioni arrivano come vento dalle montagne, e le persone vengono uccise come se essere uccise fosse l’unico ordine naturale e legittimo della loro esistenza. Come se vivere fosse un’aberrazione. Questa lingua protegge forse la frangia più assetata di sangue dell’impero, ma agli estremisti non interessano le improprietà linguistiche. È invece il centro, il centro liberale, benintenzionato e facilmente impressionabile che ha disperatamente bisogno della protezione offerta da questo tipo di linguaggio. Perché è il centro dell’impero che deve poter guardare tutto questo e dire, Sì certo, è tragico ma è necessario, perché l’alternativa è la barbarie. L’alternativa al numero infinito di esseri umani uccisi e mutilati e resi orfani e lasciati senza tetto senza scuole senza ospedali, l’alternativa alle urla sotto le macerie e ai cadaveri lasciati in pasto ad avvoltoi e cani, ai neonati che urlano condannati a morire di fame, è la barbarie.

Dopo i primi attacchi di Israele a Gaza quello che El Akkad chiama il centro dell’impero citava come una cantilena a rassicurazione del proprio inattaccabile privilegio “il diritto alla difesa”, “l’unica democrazia del Medio Oriente”, “e allora il 7 ottobre”, falciando via con un razzismo di cui neanche si rendeva conto il contesto e la profondità storica di un popolo invisibile, sacrificabile, manipolato e schiacciato ai margini dell’umanità (decenni di occupazione, umiliazione, sopruso di Israele e dell’Occidente bianco sulla Palestina araba, ad esempio) e lo sbigottimento di chi già si rendeva conto dall’interno di quella manipolazione del linguaggio, della prospettiva, del semplice buon senso perdendo così, di colpo e non senza conseguenze di lungo termine, ogni riferimento istituzionale (il mondo dell’informazione e quello della politica su tutti, la loro schiena voltata al genocidio con costanza ancora oggi). A questi, a chi gridava e protestava contro il massacro più documentato della storia il centro dell’impero dava degli stupidi, nella migliore delle ipotesi, degli antisemiti, nella peggiore.

È questo di cui parla il libro affilatissimo di El Akkad: non di Israele e Hamas, non di loro, bensì di noi e del processo con cui l’Occidente bianco ha continuato anche in questa occasione - di gravità e proporzioni però inedite - ad autoingannarsi per proteggersi dalle proprie responsabilità e dalla fragilità del mondo che nei secoli ha costruito, ovvero: “i barbari istigano e i civilizzati sono costretti a rispondere”, “un costrutto […] che ha costretto a un’esistenza binaria interi gruppi di persone”. La morte orrorosa e dilaniante di più di 50mila civili arabi - tra cui soprattutto bambini - è infatti “collaterale” a una causa più grande, quella della civiltà, della democrazia, dei diritti, della promessa di libertà di cui gli occidentali sono esempio e sorgente. Finché riguarda noi e i nostri simili, naturalmente. Finché per onorarla davvero, quella promessa, a noi non venga richiesto di compromettere un minimo di interesse personale e collettivo.

Nessun altro autore o autrice avrebbe potuto scrivere questo libro e recapitarcelo con così tanta potenza. Omar El Akkad è in una posizione da cui conosce tutto e può osservare tutto: i meccanismi del privilegio dell’Occidente, la divisione del Medio Oriente, la discriminazione verso gli arabi, il successo, l’ipocrisia e - più di ogni altra cosa - il rigore morale del giornalista. Quello che è mancato a molti e molte di noi.


Appuntamenti

  • Una cosa bella: lunedì 9 giugno comincerò una rubrica settimanale che proseguirà per tutta l’estate intitolata “L’altra America” e contenuta nel programma radiofonico del mattino presto di Marco Maisano su Radio Capital. Se ti va potrai ascoltarmi in diretta intorno alle 6.40 oppure più tardi nella versione podcast.

  • Il bookclub LIT a maggio ha letto un libro particolarissimo e denso di rovesciamenti di prospettiva, un testo che potrebbe accompagnarsi bene a quello di El Akkad pur trattando di temi apparentemente diversi: gruppi, persone e comunità di Americani che nel tempo - soprattutto nell’Ottocento - hanno cercato di costituire forme di società diverse da quella predominante, già riconosciuta come capitalista e imperialista. Il libro si intitola Quando il ramo si spezza ed è di Daegan Miller. Non è stata una lettura semplice ma - come puoi ben immaginare - questo ha reso la nostra discussione ancora più interessante. La puoi recuperare qui, iscrivendoti oggi stesso al gruppo di lettura! A giugno, invece, passiamo dall’utopia alla distopia: leggeremo La parabola del seminatore, uno dei romanzi più apprezzati della più grande scrittrice afroamericana di fantascienza: Octavia Butler. Sono molto orgogliosa e soddisfatta del percorso che stiamo facendo insieme.

  • Considerato ciò che sta avvenendo nell’attualità di questi giorni, sento che il Monthly di giugno sarà piuttosto ricco e movimentato, ma già quello di maggio non si è risparmiato proprio in nulla. Se ancora non lo sai, The Monthly è il paginone della McMusa che fotografa l’America culturale di mese in mese, per farne una collezione con cui poi riguardare a questi 4 anni di Trump.

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Grazie per avermi seguita fin qui oggi, Sogni Americani torna da due sabati! Ciao e buon voto.


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