Sogni Americani
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In origine i cowboy erano neri
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In origine i cowboy erano neri

E anche oggi stanno benissimo

Lo scorso mercoledì era Juneteenth, una ricorrenza del calendario statunitense diventata festività federale soltanto nel 2021 ma onorata dalla comunità Black dal 1865: celebra infatti la liberazione dalla schiavitù e, in particolare, il momento in cui la notizia dell’abrogazione della schiavitù arrivò a Galveston in Texas, l’ultimo posto in cui ancora era in vigore.

Nonostante, appunto, Juneteenth sia diventata festa federale soltanto dopo che l’omicidio di George Floyd, avvenuto nel 2020, ha fatto esplodere una nuova ondata di proteste e richieste di intervento sui diritti civili delle persone afroamericane, uomini, donne, famiglie, gruppi di amici e parenti neri hanno sempre onorato il 19 giugno, in forme più o meno collettive, comunitarie e visibili.

È da una di queste forme che parte la newsletter di oggi, una puntata che ti farà cadere la mascella un paio di volte e per il resto ti riempirà di ammirazione. Per la maggior parte si svolge al rodeo e coinvolge uno degli archetipi più marmorei della cultura americana, quello del cowboy.

Sono gli anni Settanta. L’allora studentessa di fotogiornalismo della University of Texas originaria di Albuquerque in New Mexico, Sarah Bird, comincia a interessarsi di sottoculture del rodeo: per quanto, infatti, il rodeo sia comunemente narrato come una disciplina per uomini bianchi eterosessuali, Sarah assiste con sua stessa sorpresa a rodei femminili, queer e Black. Ed è a uno di questi ultimi, quello più grande e partecipato, quello svolto in una zona periferica di Houston abitata solo da afroamericani, quello del Juneteenth che decide di scattare alcune fotografie. Accolta - lo racconta in un’intervista a Chron - con calore e festosità nonostante sia l’unica bianca presente, Bird, totalmente avvinta dalle competizioni e dalla familiare atmosfera western, scatta e scatta e scatta: non aveva idea, allora, che esistessero rodei rivolti unicamente a persone afroamericane né aveva mai immaginato che fossero così partecipati, iconici e presi sul serio. Senza alcuna differenza con quelli mainstream, tradizionali, quelli ritenuti “normali”.

Realizza quindi centinaia di scatti (tra cui quello che postato poco sopra) e, convinta di avere tra le mani un tesoro che può destare interesse e sorpresa anche in altre persone, propone a diversi magazine dei servizi, a degli editori l’intera raccolta. Ma la risposta che riceve da tutti è sempre la stessa: Black rodeos? Who cares? Che i neri abbiano il loro rodeo non è una storia che può interessare a qualcuno. Sono gli anni Settanta, la società del Sud degli Stati Uniti è ancora piuttosto segregata e chi è in controllo della narrazione di massa riserva ai cowboy un “posizionamento” (chiamiamolo così, ci torno tra poco) esclusivamente bianco.

Sarah Bird abbandona quindi il progetto, mette via le sue fotografie e nei successivi 50 anni si dedica a diventare una scrittrice molto popolare, riconoscibile e prolifica. Fino a quando, qualche mese fa, dalla proverbiale soffitta non spuntano di nuovo fuori quegli scatti e lei, forse forte della sua nuova posizione o forse consapevole che i tempi potrebbero essere cambiati, non la ripropone a un editore. Ormai ha 74 anni e si dice “devo riuscire a pubblicare queste foto prima di morire”.

E ci riesce.

Juneteenth Rodeo - questo il titolo del suo libro - è uscito a inizio giugno per la UT Press (la casa editrice dell’Università del Texas) e, come testimonia anche questo servizio del Texas Monthly che ti consiglio di leggere o di guardare dal carosello qui sotto (le foto sono magnifiche), ha già fatto storia.

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E ha contribuito a rendere ancora più incisivo il trend che l’album Cowboy Carter di Beyoncé ha accelerato alla massima potenza negli ultimi mesi ma che si muoveva con più o meno efficacia già da decenni: i cowboy e le cowgirl Black si stanno finalmente riprendendo quello che è loro ed è sempre stato loro. Dall’inizio dei tempi. La tradizione western. Rodeo incluso.

Quello che infatti la narrazione di massa, veicolata soprattutto da Hollywood e dalla tv, non ha mai volutamente raccontato è che sin dall’inizio dell’Ottocento almeno 1 cowboy su 4 era nero e che questa proporzione si è sempre mantenuta nel tempo oscillando tra il 20 e il 30%. Ma c’è di più: lo stesso termine cowboy designava propriamente il ragazzo nero che si prendeva cura delle vacche e non quello bianco, dacché il termine boy nell’inglese di allora veniva usato in senso razzista e dispregiativo per definire in modo colloquiale gli afroamericani, sia giovani che non giovani. Il termine che veniva usato per i bianchi era, infatti, cowhand.

Lo so, sconvolgente.

A maggior ragione perché poi, riprendendo il discorso sul “posizionamento” a cui accennavo prima, il cowhand bianco si è appropriato del termine cowboy, l’ha reso un archetipo della propria cultura e ha progressivamente allontanato e spostato in zone d’ombra tutti gli elementi che appartenevano alla sua connotazione Black originaria. Al punto da rifiutare di dare ai cowboy ciò che è sempre stato loro, come hanno dimostrato i diversi rifiuti degli editori bianchi a Sarah Bird negli anni Settanta. E i film di John Ford. E le valanghe di libri, sceneggiati, racconti, canzoni, tornei, pubblicità degli ultimi due secoli. Con qualche eccezione, certo. Ma ci siamo capiti. Essere invisibili non vuol dire essere inesistenti. Vuol dire essere appunto invisibili perché a essere visibile è qualcuno o qualcos’altro.

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Oggi, dicevo, il trend è cambiato. Non solo l’editoria dà molto più spazio a storie di cowboy neri (ti consiglio questa, che è quella che vedi nell’immagine sopra, si mette in evidenza come nella cultura western, anche quella di un secolo fa, quando si trattava della dura vita nei ranch contavano di più l’attitudine, la prestanza fisica e l’intraprendenza piuttosto che il colore della pelle), ma lo fanno anche il cinema, lo sport, la politica e la pop culture. Questo non significa che i rodei Black abbiano smesso di esistere, anzi! Significa, al contrario, che godono di maggiore considerazione e rappresentazione.

È quindi con un altro libro fotografico che questa storia che ti ho raccontato oggi va a terminare: si intitola Eight Seconds. Black Rodeo Culture ed è uscito lo scorso 30 aprile per Damiani Books. Raccoglie centinaia di scatti realizzati dal fotografo afroamericano Ivan McClellan dal 2015, dall’Oklahoma all’Oregon, dal Nevada al Tennessee. Come racconta lui stesso qui e qui, “ma chi aveva idea che negli Stati Uniti esistessero così tanti rodei per neri? Finalmente sento di appartenere a qualcosa che mi rispecchia. E se i bianchi si sentono offesi perché gli si porta via un modello a loro molto caro, be’ non era loro sin dall’inizio.”

I saw all these Black folks who were so cool, with hip-hop culture and street style and cowboys – which I loved since I was a kid – all merged together. I felt I belonged. It’s changed my life. Finding this subject matter and getting obsessed with it has been the most rewarding artistic journey of my entire life. I’ve made lifelong friendships and it has become part of my identity.

E, in effetti, il viaggio fotografico e identitario di McClellan è travolgente: ti consiglio di seguirlo su Instagram, ho fatto fatica a scegliere solo un’immagine da mettere qui sotto e come cover di questa newsletter.

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Grazie per avermi seguita fin qua oggi. Questo tema, se mi segui da un po’, sai che mi appassiona molto: uno dei momenti più belli del mio 2023 è stato quando ho incontrato i Compton Cowboys a Los Angeles nel loro ranch insieme ai Book Riders la scorsa estate. L’ho raccontato in Miglia.

Spero di poterti raccontare ancora storie come questa, nel frattempo ne ho realizzate molte, molte altre.


La McMusa somiglia sempre di più a un magazine

E queste sono alcune delle sue rubriche.

Gratis:

  • la scorsa settimana ho inaugurato un format fresco e semplice, si tratta di un Q&A in cui rispondo ad alcune delle domande che mi vengono rivolte dal pubblico. L’esordio è stato molto gradito, lo trovi sia su Instagram che su TikTok (qui sotto).

A pagamento (che servono a me per fare quelle gratis e a chi paga per sostenere il giornalismo indipendente e di qualità):

  • Miglia, il podcast di racconto ed esplorazione on the road degli Stati Uniti, a giugno è arrivato in Nevada (con una puntata che ha destato qualche frecciatina) e a luglio - te lo anticipo - andrà in una città molto coinvolta dai fatti politici di stretta attualità!

  • a proposito di attualità, la newsletter Mac&Cheese curata da Valeria Sesia, questo mese ha raccontato la crisi di NPR, la National Public Radio, accusata dall’interno di essere più ipocrita che inclusiva, una faccenda interessante e non priva di fondamento;

  • il bookclub LIT è a metà di una stagione pazzesca! Da gennaio abbiamo letto, in ordine: Le schegge di Bret Easton Ellis, Demon Copperhead di Barbara Kingsolver, La vita delle rocce di Rick Bass, Casa fatta di alba di N. Scott Momaday, Stay True di Hua Hsu e adesso Stelle vaganti di Tommy Orange; e posso assicurati che la seconda metà non sarà da meno;

  • States, la newsletter che curo con Luciana Grosso in viaggio verso le elezioni presidenziali Stato dopo Stato, è arrivata a 3/5 del suo percorso: noi siamo entusiaste, stiamo facendo un grande lavoro che siamo certe sarà molto utile alle persone abbonate non solo a novembre ma sempre! Dai un’occhiata a questo carosello qui sotto o alla nostra homepage.

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Che bello vedere tutto questo nero su bianco. Grazie di esserci in una, alcune o tutte queste rubriche, ci risentiamo tra due settimane sempre qui. Ciao!

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