Non c’è cosa più tipica per chi viaggia negli Stati Uniti che fiancheggiare una enorme e gigantesca porzione di territorio recintato. Non mi riferisco tanto alla terra intorno alle Interstate molto trafficate o alle highway nei pressi delle città, dove spesso ci sono case, fabbriche, malls, benzinai, capannoni e motel: penso piuttosto alle strade secondarie, quelle con una corsia per senso di marcia, dove il traffico è molto rado, gli insediamenti umani sono pressoché inesistenti e frequenti sono invece le carcasse degli animali morti sul ciglio (una cosa triste e comunissima, non l’ho scritto per impressionarti, è realtà). Il recinto di filo spinato che corre parallelo alla strada e delimita queste porzioni di territorio è spesso poco visibile ma la sua presenza è tuttavia tonante: al di là c’è una proprietà privata, al di là di quel recinto non si può passare.
L’elemento sorprendente, però, è un altro: oltre il filo spinato non si vede nulla. O meglio, oltre il filo spinato non si intravede una casa o un fienile o una fattoria: si intravede solo natura. Distese sconfinate di monti, boschi, anse di fiumi, colline, praterie, laghi, deserti, campi di mesquite e serpenti a sonagli, canyon, colli, ruscelli e piattissime radure. La cosa più simile a quella che ancora oggi chiamiamo per convenzione wilderness. Notando quell’apparente paradosso, allora, dalla tua piccola macchina in corsa non puoi non chiederti: ma cosa recinta quel recinto? Laggiù non c’è nulla.
Sbagliato. Laggiù, anche se non vedi la sua parte civilizzata, c’è un ranch (la terra pubblica, quindi non recintata, negli Stati Uniti è pochissima). Un ranch come quello dove ti porto oggi, che è grande tre volte Manhattan (hai capito bene) e che, oltre a tutti gli elementi della natura che ho elencato prima, nella sua proprietà include anche una parte del confine tra Arizona e Messico.
Naturalmente il ranch è una cosa abitata, è un’enorme porzione di territorio che è di qualcuno e serve a qualcosa: di norma c’è una famiglia che lo possiede e un certo numero di cowboys e wranglers che lo gestisce. Che, anzi, gestisce la sua attività economica principale: l’allevamento e, dunque, il pascolo e il mantenimento delle mandrie (è a loro che serve tutta quella terra). Se ti sta venendo in mente la serie tv Yellowstone sei senz’altro sulla strada giusta. Nel nostro caso, però, alle avventure spietate e spesso estreme della famiglia Dutton dobbiamo sostituire i patimenti e le difficoltà del tutto umane e quotidiane dei coniugi Chilton (84 anni lui, 81 lei), che non devono confrontarsi con ricchi contendenti californiani o rivendicazioni dei Nativi ma con qualcosa di molto, molto peggiore: il caos che in questi ultimi anni sta abitando la linea di confine con il Messico. Una linea che soltanto nel mese di dicembre è stata attraversata da 302 mila persone, di cui alcune centinaia proprio attraverso il territorio immenso dell’anziana coppia.
La storia di Jim Chilton e del suo ranch, attivo da ben quattro generazioni, è tosta. È stata raccontata in un pezzo del New York Times firmato dal giornalista Eli Saslow e dalla fotografa Erin Schaff (di cui sono tutte le immagini che ho inserito in questa newsletter): per realizzare il servizio, i due hanno trascorso nel ranch circa una settimana e hanno parlato di questa esperienza come qualcosa di surreale. Il contrasto tra l’estremo isolamento (remoteness in inglese, rende meglio) della proprietà Chilton e dei territori limitrofi e l’improvvisa apparizione di gruppi di centinaia persone confuse, disidratate, alcune deliranti, vestite di stracci, sporche e di qualsiasi provenienza del mondo era - dicono - qualcosa di troppo difficile di cui capacitarsi, qualcosa di mai visto. Non solo per il contrasto in sé ma anche per la frequenza con cui si manifestava: quotidiana. Il pezzo, infatti, mette a fuoco soprattutto due dati concreti rispetto alla situazione odierna al confine, su cui poi costruisce il ritratto di Jim, la moglie e un rancher limitrofo a cui è capitato persin di peggio:
tutte le rotte oggi sono controllate dal cartello di Sinaloa, l’organizzazione criminale più potente e pericolosa del mondo, che Jim Chilton si è trovato ad avere come “vicino di casa” solo recentemente perché non gestisce più il traffico di droga, com’era fino a 5-6 anni fa, bensì ha in mano l’intero traffico di persone (ovviamente appaltato ai cosiddetti smugglers, delle vere e proprie guide che conoscono il territorio e smistano soldi e persone);
a scegliere di intraprendere queste rotte non sono più soltanto gruppi e famiglie dal Sud America bensì gente che arriva da tutte le parti del mondo, Asia in testa; questo fa sì che le apparizioni quotidiane di questi gruppi siano caratterizzate anche da una sovrabbondanza linguistica ed etnica che le rende ancora più apocalittiche, una rappresentazione delle Nazioni Unite nel bel mezzo del deserto cocente e fatale. Come quei fiumi che si costruiscono il proprio letto da soli, tanto l’acqua è potente e inarrestabile.
Jim è sconvolto. Negli ultimi 15 anni alcune decine di persone sono morte dopo aver attraversato il confine, lì sul suo terreno: tempo fa, in uno sforzo che ancora aveva senso di essere fatto, aveva installato alcune telecamere con cui cercare di tenere d’occhio la situazione e aveva fatto costruire diverse cisterne d’acqua sparse qua e là per aiutare le persone a non morire di stenti. Eppure, si rende conto oggi più mai, non si può controllare un territorio così vasto, non si può arginare un’emergenza così fuori controllo, soprattutto se si è soli come lo è lui che, pur avendo alle sue dipendenze un piccolo gruppo di cowboy, gestisce il ranch in totale autonomia ed è in buoni rapporti con la polizia di frontiera ma non è la polizia di frontiera.
Ecco perché, quando Trump propose di costruire un muro e in effetti poi dalle sue parti lo fece, Jim si sentì più al sicuro; quando l’ex-presidente impedì ai richiedenti asilo di sostare su suolo americano in attesa del colloquio (il cosiddetto provvedimento Title 42, ne avevo parlato qui), Jim percepì una maggiore padronanza degli eventi, un maggiore controllo. Per persone come Jim, abituate a vivere isolate sul confine ma anche preda di elementi obiettivamente travolgenti (dal clima alle distanze ai cambiamenti dei flussi migratori), la questione della sicurezza è un tema molto più umano che politico o strumentale, un tema che per nulla cozza con l’empatia di cui un signore del genere (così come la sua famiglia) ha dato prova nel tempo aiutando i migranti, dando loro soccorso e a volte direttamente un lavoro nel proprio ranch, collaborando con le autorità di frontiera per facilitare le procedure di ingresso e richiesta di asilo di chi passava dal suo terreno. In altre parole, capendoli e mai respingendoli.
Come sempre quando prendo spunto da un articolo di una grande testata americana, mi preme rimandarti allo stesso, sia per tutto il resto che viene raccontato e che qui non può trovare spazio, sia per le immagini, sempre davvero potenti. Lo faccio anche oggi (qui!), perché la storia di Jim e dei suoi vicini è davvero toccante e ancora lunga, e io voglio avviarmi verso la conclusione di questa newsletter collegando al tema della sicurezza - e quindi del muro - due storie di cui sono stata testimone. La prima è quella di una ragazza californiana che attraversa la dogana di Calexico su base quasi giornaliera per andare a trovare la sua fidanzata messicana e - ha raccontato a un gruppo di Book Riders mesi fa - si sente meno sicura rispetto a quando alla presidenza c’era Trump: oggi - ha detto - il processo è più pericoloso e le insidie sono maggiori. La seconda è quella di un ristorante italoamericano nei pressi di El Paso dove sono stata con un altro gruppo di Book Riders lo scorso novembre (e che tornerà a essere protagonista di questa newsletter perché abbiamo scoperto che ci andava a mangiare Cormac McCarthy) e dove i gruppi di migranti puoi vederli attraversare il confine tutte le notti, proprio di fronte all’entrata del locale. Solo che la maggior parte delle volte, ci ha raccontato la donna che gestisce il ristorante, non si tratta soltanto di disperati che valicano un confine: si tratta più spesso di ricatti, minacce, arti di persone morte che vengono trovati dentro sacchi della spazzatura, abiti e soldi rubati, inseguimenti e violenze di ogni genere. È complicato vivere qui, ha chiuso alla fine lei. È complicato pensare a una soluzione che faccia sentire al sicuro tutti quanti.
Come a dire: ci sono territori degli Stati Uniti in cui la propaganda contro gli immigrati di Trump smette di essere importante, smette persino di avere un senso - nessuna di queste persone è ostile verso di loro - ma resta centrale il bisogno di non sentirsi in pericolo a casa propria. E questo bisogno spesso non può che aggrapparsi alle soluzioni più decise.
Grazie per avermi seguita fin qui anche oggi! Non è però ancora ora di salutarci, ci sono le consuete novità dal mondo McMusa.
Appuntamenti dal vivo e online
Dopo alcune settimane di pausa, riprendo a fare eventi pubblici e ad andare un po’ in giro per l’Italia: ho quindi aggiornato il calendario del mio sito e continuerò costantemente a farlo. Le prime date sono due presentazioni del mio memoir Sparire qui: una a Mortara il 25 febbraio e una a Faenza il 2 marzo. Seguiranno altre iniziative di vario genere.
Trump si è messo a vendere scarpe da ginnastica. Ma perché? Ho risposto nel podcast di Marco Maisano che si intitola proprio così.
A proposito di ritorni: the one and only Valeria Sesia, la mia socia e compagna di membership, dopo la pausa maternità è tornata a condurre Mac&Cheese, la newsletter sulla pop culture e i luoghi comuni americani riservata alle persone abbonate. E - porca miseria! - l’ha fatto con una storia allucinante e spaventosa - ma purtroppo verissima - che puoi assaggiare qui oppure leggere integralmente sottoscrivendo l’abbonamento.
Sogni Americani ultimamente si sta concentrando su temi di attualità e critica: è una direzione che mi interessa molto in questo periodo storico e vedo che coinvolge allo stesso modo anche te e il resto del pubblico. Se però ti mancano la letteratura e i consigli di lettura (cosa che ogni tanto succede in primis a me), ti ricordo che l’altra newsletter, quella che curo con Luciana Grosso e si chiama States, ne è strapiena. Per ogni Stato trattato ci sono almeno 4-5 libri suggeriti. E siamo a neanche un quarto del nostro viaggio, se vuoi unirti a noi fino a novembre puoi farlo da qui e recuperare anche tutte le tappe precedenti.
Piccola rassegna sull’Alaska
Lunedì scorso è terminata la quarta stagione di True Detective: The Night Country. Avremo modo di parlarne (probabilmente sul mio canale Telegram) ma intanto possiamo già sostenere una cosa: ha fatto aumentare l’interesse per l’Alaska e le sue popolazioni native. Se anche tu sei tra le persone che vorrebbe sapere qualcosa in più su The Last Frontier (è questo il soprannome dello Stato), su Mac&Cheese io e Valeria (soprattutto lei) ci abbiamo dato dentro:
l’identità Inuk rappresentata benissimo da Shina Novalonga;
dodici giorni per celebrare le comunità dell'Alaska, tra affari e tradizioni goliardiche. Si tratta del Fur Rondy, ad Anchorage, uno degli eventi più attesi dell'anno;
una piccolissima comunità e una scommessa che si ripete da 107 anni e che coinvolge gli abitanti di tutto lo Stato: la Nenana Ice Classic, uno dei giochi d’azzardo più antichi d’America;
ah, poi ovviamente c’è la tappa alaskana di States.
Per oggi è tutto, ci risentiamo tra due sabati sempre qui. Ciao!
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