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Questa dura terra
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Questa dura terra

Cosa dovrebbe cambiare al confine del Messico e cosa invece non cambierà

Alle 23.59 di giovedì scorso, 11 maggio 2023, è terminata un’era. Alle 24 di quello stesso giorno, tuttavia, non ne è cominciata una nuova. O, meglio, è cominciata un’epoca di mezzo che forse ben si sposerà, nella sua esistenza ambigua e pericolosa, a quel territorio di mezzo che andrà ad accompagnare: il confine tra Stati Uniti e Messico. Quell’enorme porzione di dura terra, per lo più desertica, che da decenni è interessata da un flusso di immigrazione imponente proveniente dal sud e da politiche più o meno efficaci, più o meno disumane, più o meno impari provenienti invece da chi da nord quel flusso vorrebbe regolarlo, amministrarlo, se non del tutto fermarlo.

Come accadde tre anni fa, quando l’ex presidente Donald Trump usò la pandemia e l’esigenza di proteggere la salute nazionale per impedire alle persone ferme o in arrivo al confine di richiedere asilo, anche se e quando ne avessero avuto diritto. Di fatto, il provvedimento che venne chiamato sinteticamente Title 42 e venne messo in vigore a marzo 2020 con il proposito di fermare il contagio da Covid19 diede alle autorità di frontiera il pieno potere di espellere immediatamente chiunque entrasse nel territorio statunitense, senza permettere a nessuno e per nessun motivo di valicarlo o di restarvi temporaneamente, in attesa del normale compimento delle procedure di richiesta di asilo. Processo, questo, che invece fino ad allora costituiva la norma, seppur con inestricabili anomalie e crudeli consuetudini, come le leggi che periodicamente in questi anni (anche quelli di Biden) hanno stabilito di separare al confine i bambini e le bambine dalle proprie famiglie d’origine.

Con l’annuncio dell’OMS della fine della pandemia avvenuto lo scorso 5 maggio, anche il Title 42 è andato incontro alla sua rimozione, senza che però al suo posto vacante venisse conferito un titolo nuovo, una norma nuova, una politica nuova. Anzi. Allo scoccare della mezzanotte del 12 maggio, la situazione nei principali luoghi di confine in Texas, Arizona e California si è presentata tanto incerta quanto elettrica ma a sorprendere almeno una parte della popolazione americana e forse anche una parte di noi non è stata tanto l’incertezza quanto piuttosto la difficoltà di percepire un cambiamento in una direzione più umana e accogliente. L’impossibilità di vedere nel cambio di presidente anche un cambio di politica nei confronti dell’immigrazione e della sua tanto complessa quanto fondamentale gestione.

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Cosa sta succedendo, quindi, in concreto? Due cose, una là su quella dura terra e un’altra là dove si fanno le leggi e dove al momento siede Joe Biden, in quella che chiaramente non è una posizione facile.

Partiamo dalla prima: in questi giorni, mosse dalla speranza che la fine del Title 42 coincidesse anche con la fine dell’intransigente politica di deportazione, quantità incredibili di persone si sono dirette verso il confine statunitense, hanno attraversato il Rio Grande, si sono messe in viaggio arrivando in Messico dal Venezuela, l’Honduras, il Guatemala e altre zone disgraziate del Sud America, affollando così a dismisura strutture, aree e mezzi delle autorità, ma creando altresì le premesse per poter almeno essere ascoltate e valutate per la richiesta d’asilo di nuovo disponibile. Si stima che in questi giorni ne siano arrivate (e ne arriveranno) circa 22 mila al giorno. Ad accoglierle hanno trovato il sostanzioso dispiegamento di forze mandate dal presidente (circa 1500 ufficiali di polizia si sono aggiunti in queste ore a quelli già in servizio) e un messaggio piuttosto chiaro: the border is not open. Il confine non è aperto.

Allo stesso modo, da quel tavolo dove le leggi si fanno e si scrivono, Biden sta cercando di limitare, di scoraggiare l’immigrazione irregolare e di aprire nuove strade per quella regolare. O, detto in altre parole, visto che in questi casi le parole sono ancora più importanti e sono di fatto l’unica cosa che si possiede, il presidente ha scelto di concentrare le proprie risorse soprattutto sul potenziamento dell’immigrazione regolare, sperando in tal modo di alleviare la pressione su quella dura terra che invece continua ad essere al centro delle speranze, dei cuori, delle gambe di decine di migliaia di migranti e che, tuttavia, proprio a causa di questa pressione, potrebbe precipitare presto in un ingestibile caos.

We have an unprecedented number of people from around the world seeking entry into the United States. It’s Russians trying to evade conscription as the war with Ukraine rages. It’s Afghans trying to escape the Taliban. It’s Venezuelans, Haitians, Cubans, Colombians, Nicaraguans, who are coming from countries whose economies have been ravaged by COVID.

Cosa propone, quindi, Biden? Come racconta con molta chiarezza la giornalista del New York Times Miriam Jordan in una puntata di The Daily (è sua la citazione sopra), le misure incentivate dall’attuale presidente sono sostanzialmente (e per ora) tre:

  1. permettere alle persone di alcuni paesi poveri (tra cui Venezuela, Cuba, Nicaragua e Haiti) di volare direttamente negli Stati Uniti dal proprio luogo d’origine se hanno la garanzia di uno sponsor finanziario;

  2. instaurare o potenziare dei centri d’accoglienza nel territorio di stati come la Colombia o il Guatemala, dove le persone possano andare a sbrigare la procedura di richiesta d’asilo senza quindi intraprendere il disumano viaggio verso il confine tra Messico e Stati Uniti;

  3. progettare una app attraverso la quale chiunque si trovi in Messico possa fissare un appuntamento con un ufficiale delle autorità di frontiera, senza - di nuovo - accalcarsi su quella sottile striscia di terra che divide i due stati e portarla al collasso.

Tre misure che si basano su una certa strategia, sicuramente, ma anche su un innegabile senso del privilegio: non tutte le persone che migrano hanno una famiglia o dei conoscenti negli Stati Uniti che le possano sostenere economicamente, non è chiaro il criterio né tanto meno il processo con cui verranno installati dei centri d’accoglienza in alcuni paesi e in altri no, non si può mettere il destino delle persone in mano a una tecnologia che spesso non funziona o non è accessibile o è semplicemente troppo cara.

E poi c’è anche un’altra cosa, dicono il buonsenso e la tanta abbondanza di storie di immigrazione sia su questo confine che su tutti gli altri nel mondo: non sono la fame o la disperazione o la paura a dover essere disciplinate o regolate, è chi sta dall’altro lato a dover smettere di credere che il confine possa davvero essere un confine.

Grazie per avermi seguita fin qui oggi. Tra i Sogni Americani che costituiscono questa newsletter ce ne sono alcuni più letterari, altri più disperati, altri più scatenati e altri più informativi. Come quello che hai appena letto, sulla cui scelta ha pesato favorevolmente lo stretto rapporto che ho con una parte della mia community, quella di Telegram, in grado in questo caso di orientare addirittura una parte del mio lavoro attraverso un sondaggio. Aspetto anche te nel gruppo, se vorrai, e intanto ti do appuntamento tra due sabati, non prima di averti presentato - come sempre - qualche novità!


Da sapere, leggere e guardare

Sono successe e succederanno diverse cose interessanti in questo periodo. Te ne elenco alcune, le più importanti:

  • venerdì 5 maggio sono stata ospite dell’ultima puntata di CinAmerica, la trasmissione di approfondimento culturale di RaiTre dedicata alla sfida tra Cina e Stati Uniti, condotta dai bravissimi Francesco Costa e Giada Messetti: puoi rivederla qui;

  • venerdì 19 maggio sarò al Salone del Libro di Torino per presentare La Terra è rotonda, l’ultimo numero di Cose spiegate bene, la rivista periodica del Post. Con me ci sarà il direttore Luca Sofri e saremo in Sala Magenta alle 19.30;

  • LIT, il già leggendario bookclub della McMusa, questo mese si riunirà mercoledì 24 maggio alle 18.30 per discutere insieme di Mississippi Solo, il libro di Eddy L. Harris pubblicato di recente da La Nuova Frontiera. A questo link puoi sia vedere di che meraviglia si tratta, sia acquistarlo (è un link affiliato, tu lo compri allo stesso prezzo e a me arriva una minima percentuale); mentre qui, invece, puoi unirti a noi e prendere parte a questo viaggio letterario sempre più eccitante, inclusivo e ovviamente americano;

  • infine, sono stata intervistata da Goodwill, un’associazione di promozione sociale che in questo periodo sta incontrando persone che possono essere d’ispirazione per le generazioni più giovani. Ti lascio allora alle splendide parole con cui l’autrice dell’intervista, Samanta La Manna, ha voluto ritrarre il mio lavoro e i valori che lo sostengono. Mi hanno colpita, non sempre capita di trovarsi così bene nelle immagini che gli altri scelgono per te. Grazie!

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