Sogni Americani
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Questa non è una guida agli Oscar del 2024
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Questa non è una guida agli Oscar del 2024

Questa è soltanto una puntata più leggera

Non so da quanto tempo tu sia iscritta o iscritto a questa newsletter, ma avrai notato che i primi mesi dell’anno sono stati davvero tosti da queste parti! Quattro newsletter, una dietro l’altra, che ci hanno fatto riflettere su temi come l’identità degli Americani e l’uniformità del loro voto, il modo in cui la politica influisce sulla vita quotidiana, la sicurezza, la povertà e molto altro. Mi ricordo di quando, ormai molto tempo fa, mi ripromettevo di rendere questo appuntamento sempre più “impegnato” dal punto di vista critico e be’, eccoci qui.

Oggi, però, ci prendiamo una meritata pausa. Anzi, non solo oggi ma per tutto marzo, quindi anche la prossima volta. Non scenderemo di livello - quello mai! - ma affronteremo le cose da un altro paio di punti di vista, due punti di vista che per la McMusa sono da sempre dei veri fari abbaglianti: la pop culture e la letteratura. Questo è pur sempre il weekend dei premi Oscar e questa è pur sempre l’era di Taylor Swift: entrambe le cose hanno molto da raccontarci sull’America di oggi, quindi diamoci da fare. In ordine.

Quest’anno, dei 10 film candidati all’Oscar come Best Picture, ce ne sono ben 5 tratti da un libro (se clicchi sul titolo ti rimando al libro di riferimento):

È su quest’ultimo che voglio fermarmi oggi. Perché? Perché parla di libri, di romanzi Black e di editoria woke facendoci incredibilmente ridere, con quella leggerezza intelligente che è meglio di molte delle cose serie a cui ormai abbiamo fatto l’abitudine. Questo qui sotto è il trailer, ti consiglio di guardarlo.

Nonostante il romanzo di Percival Everett da cui è tratto il film (disponibile su Amazon Prime) sia del 2001, l’adattamento cinematografico centra in pieno una delle sue declinazioni più attuali: l’ipocrisia del mercato editoriale americano, in primis, ma anche della compagine intellettuale intera rispetto al carattere delle narrazioni afroamericane. La trama è semplice: Monk è uno scrittore nero che scrive (e insegna) storie che non rientrano nel classico stereotipo Black che sfama il senso di colpa dei bianchi, ovvero racconti di ghetto, violenza, eredità della schiavitù, razzismo sistemico, scontri con la polizia, gang, famiglie spezzate. Lui scrive letteratura e la letteratura, si sa, da sola oggi in America non vende, c’è bisogno che si tiri dietro una “causa” ed è da un pezzo che, infatti, Monk non chiude un contratto. Una sera si imbatte nella presentazione di un romanzo di una collega e si rende conto di questa ingombrante verità: se continuerà a credere in una reale libertà intellettuale e creativa degli Afroamericani, non venderà più un libro. E allora, frustrato, si sfoga, come solo un vero scrittore sa fare: scrive di getto un romanzo super stereotipato, una parodia della storia Black per antonomasia e la manda al suo agente.

Il “successo” è istantaneo. Ed è enorme. L’agente è entusiasta, l’editore gli offre un anticipo da capogiro, un produttore cinematografico ha già pronta una proposta e Monk non ha che da continuare a fingere di essere il nero che tutti i bianchi - soprattutto quelli intellettuali, soprattutto quelli che pensano di stare combattendo per la giusta causa, soprattutto i woke - vogliono.

Come avrai intuito, il tema trattato in questo film è complesso e l’ironia - anzi, la leggerezza - in una storia così non può che essere il risultato di una profondissima consapevolezza e intelligenza. Di un regista non bianco, ovviamente. Eppure, American Fiction (dove fiction ha quel meraviglioso doppio significato di narrazione, da un lato, e finzione, dall’altro) è una storia di cui, a mio parere, abbiamo tutti e tutte un grande bisogno: non solo perché è bella, ma anche perché ci scagiona dall’essere sempre perfetti, dal dire sempre la cosa giusta, dall’impossibilità di sbagliare e di crescere come persone facendo degli errori e ammettendo la complessità. Quando proviamo a fare così, quando vogliamo essere i migliori alleati delle minoranze ma dal termine “migliore” cancelliamo ogni chiaroscuro di umanità e contesto, rischiamo di fare più danni che altro.

Certo, c’è chi poi dall’altro lato fa molto di peggio, ma di questo oggi preferirei non parlare. Preferirei restare sulla leggerezza di non sapere e potere andare sempre a braccetto con la perfezione, pur volevo puntare fermamente a migliorarsi. Se ti va, prova a usare questa lente per giudicare i film candidati agli Oscar di quest’anno e anche tutte le parole che verranno (o sono già state) spese a riguardo. Da te e da chi ti sta intorno o ti informa.

Per me le recensioni migliori le hanno fatte Linus e Nicola Savino nella puntata di Deejay Chiama Italia dell’8 marzo: tre parole brutali per ogni film, una buona dose di dissacrante onestà e quel miracolo dell’intelligenza che riesce ormai a sempre meno persone: non prendersi poi così sul serio. Una cosa che chi commenta i film degli Oscar normalmente si dimentica. Se vorrai ascoltarlo e arriverai alla recensione di Povere creature, sappi che la ritengo la migliore in assoluto e che ho riso un quarto d’ora.

Grazie per avermi seguita fin qui oggi, prima di salutarci facciamo il consueto e utile recap, ok?


È il momento giusto per recuperare

Come ti dicevo in apertura e come accennavo anche nella scorsa puntata di Sogni Americani, ho voluto iniziare il 2024 con un certo impegno giornalistico. Mi interessava mettere a fuoco alcune realtà degli Stati Uniti e proportele in una luce critica e stimolante, a fronte - chiaramente - anche di un tuo impegno di lettura. Questa è una cosa che, a dire il vero, mi interessa sempre ma so benissimo che, da un lato, per tutti e tutte noi le cose da leggere/guardare/ascoltare sono sempre tantissime e non sempre si riesce a dedicare la giusta attenzione a quelle più laboriose e, dall’altro lato, che questo nostro spazio cresce e si arricchisce se include anche altro.

L’inclusività è un valore del pop, prima ancora dell’attivismo.

Quale migliore occasione di questa, tuttavia, per recuperare alcune di quelle storie che magari, quando ti sono arrivate in mail, hai dovuto lasciare indietro? Te le ripropongo velocemente qui:


Appuntamenti

La pagina del calendario del mio sito è aggiornata: tienila sempre d’occhio! Il prossimo weekend, ad esempio, non sarò io a presentare il mio libro bensì presenterò l’ultimo di Francesco Costa, Frontiera, insieme all’autore e il film di Emanuele Mengotti, West of Babylonia, insieme ad Andreina Di Sanzo, entrambi a Torino.

L’ultima discussione di LIT, il bookclub della McMusa, è stata travolgente proprio come il libro protagonista, Demon Copperhead di Barbara Kingsolver. Questo mese ci aspetta la raccolta di racconti La vita delle rocce di Rick Bass. Se vuoi unirti a noi puoi farlo da qui e recuperare anche tutte le puntate precedenti: se i medici potessero prescrivere LIT contro la noia e l’apatia, lo farebbero!

Infine, il viaggio di States continua: domani io e la mia mitica socia Luciana Grosso arriviamo in Kansas e chiudiamo queste quattro settimane nel Midwest che ci hanno visto esplorare l’Illinois, l’Indiana (con un ospite speciale, il ricercatore e amico Iuri Moscardi, che ha studiato e vissuto per alcuni anni proprio alla Indiana University e che ringrazio di cuore) e l’Iowa, oltre al Kansas ovviamente. Adesso che abbiamo più spighe di grano nei capelli che capelli, siamo prontissime per affrontare il resto del Paese, magari insieme a te!

Per oggi è tutto, ci risentiamo tra due sabati con un’ospite speciale (no, non è Taylor Swift, ma una persona a lei molto vicina) mentre io sarò in volo verso gli Stati Uniti. E, a proposito di una certa leggerezza ritrovata, ti lascio con questa cosa piccola e intima che ho scritto qualche giorno fa. Ciao!

A post shared by @la_mcmusa
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Gli Stati Uniti raccontati dalle persone, dai luoghi, dai libri.
Dai risvegli.
La newsletter quindicinale di Marta Ciccolari Micaldi, aka La McMusa.