Neanche un paio di settimane fa molti miei colleghi e colleghe erano in Iowa per i caucus del Partito Repubblicano. Come tante persone qui in Italia, li seguivo con grande interesse e partecipazione, ma mi trovavo anche, spesso, a commentare da sola i loro servizi chiedendo ad alta voce - come se loro potessero sentirmi - di raccontare la storia di quel tizio con i jeans lisi e il cappello da cowboy seduto in seconda fila in palestra o la giornata di quella ragazza bionda con la maglietta di Trump seduta per terra o, ancora, la vita di quella coppia che si teneva per mano là dietro mentre DeSantis parlava.
Non stavo criticando il loro lavoro, ci mancherebbe (anche perché poi qualcuna di quelle storie è stata effettivamente raccontata). Stavo ancora una volta confermando a me stessa che per me la politica degli Stati Uniti non può esistere senza la storia delle persone: Trump, Biden, i sondaggi, i risultati, le loro mosse, a volte persino i loro programmi elettorali mi interessano molto meno rispetto alle storie di chi deve sceglierli. Rispetto alle storie di chi non sta sui palchi dei comizi bensì sotto, ai loro piedi. (Non per niente la mia “strategia” è la letteratura, che racconta proprio la storia piccola.)
Perché Alex si arrabbia quando si parla di aborto? Quali sono le esigenze di Patti rispetto alla gestione della propria famiglia? Come mai Jack ha bisogno di sentirsi protetto? Che lavoro fanno Dorothy e Aiden e quali sono le ragioni per cui non ne sono soddisfatti?
A volte si vota un politico perché si è fedeli a un credo o a un’ideologia, ma spesso lo si vota perché c’è qualcosa nella vita di tutti i giorni che spinge a farlo, concretamente. Questa spinta concreta negli Stati Uniti si sta manifestando con sempre maggiore incidenza e se da qui, dall’Italia, non riconosciamo quel qualcosa che la rende tale, quel qualcosa specifico e insieme vario che porta le persone a scegliere un nome invece di un altro, rischiamo di mettercelo noi secondo le nostre aspettative ed esigenze, facendo così un clamoroso errore di valutazione. Non siamo noi a votare il Presidente degli Stati Uniti (anche se spesso vorremmo): il massimo che possiamo fare è, a mio parere, osservare la storia delle persone a noi più simili, più vicine e riconoscibili. E vedere come va.
L’occasione per farlo la prendo da un articolo del New York Times che ho letto giorni fa e calza a pennello. Racconta la storia di due famiglie che hanno dovuto fare i conti con la politica in modo talmente concreto che questo le ha spinte a cambiare Stato. A trasferirsi. Una cosa che, lo dichiarano entrambe, anche solo una generazione fa era impensabile: la politica non incideva nella vita delle persone a tal punto da spingerle ad abbandonare coscientemente un posto in cui erano state bene perché quello stesso posto non garantiva più la stessa vita. La stessa - lo vedremo - sicurezza. Oggi, al contrario, accade sempre più spesso.
While there is no precise count of how many Americans have relocated because of politics and social issues, interviews with demographers and people who have moved or are considering moving, as well as a review of social-media postings and polling, show the phenomenon is real.
Cosa è successo a queste famiglie, dunque?
(Guarda tutto il carosello di immagini per conoscere la famiglia Huckins.)
Gli Huckins, una coppia di marito e moglie che si affacciano ai 60 anni, lasciano il democratico Oregon e Portland, in particolare, in favore del repubblicano e rurale Missouri. Non riescono più, dicono, a vivere in una città abitata da una quantità di homeless fuori controllo, dove circolano molta droga e molto crimine, i fondi della polizia sono stati tagliati di più di 15 milioni di dollari nel solo 2020 in seguito alle proteste Black Lives Matter e Ginger, la signora, non riesce più a svolgere con tranquillità la sua attività di asilo casalingo perché ha paura di lasciar giocare i bambini in giardino. È possibile, dice ancora, che ci siano degli aghi lasciati lì da qualche tossicodipendente.
Entrambi hanno nostalgia di uno stile di vita più sicuro e di quell’atmosfera serena che caratterizzava Portland prima che le politiche liberali la rovinassero. Non solo dal punto di vista della sicurezza personale e dei propri beni, ma anche economico: le tasse da pagare adesso sono eccessive ed è intollerabile, a loro parere, che i tanti soldi che versano vadano a finanziare politiche che loro non solo non condividono ma mettono anche in pericolo la loro incolumità.
Non hanno torto. Se la crisi umanitaria delle persone senzatetto è allarmante per le condizioni di chi finisce per strada, le sue conseguenze coinvolgono anche le persone che in strada non sono e tuttavia ne subiscono di rimando gli effetti. Della parabola discendente di Portland avevo parlato direttamente da lì quasi un paio di anni fa; mentre da Phoenix avevo raccontato una storia simile che coinvolgeva un’altra coppia, questa volta di ristoratori, letteralmente circondati dagli accampamenti delle persone senzatetto: le trovi entrambe qui sotto, completano un quadro molto complesso in cui emerge chiaramente che non esistono vincitori.
E all’altra famiglia cosa è successo?
(Guarda tutto il carosello di immagini per conoscere la famiglia Noble.)
Jennie e Jeff Noble non hanno neanche 40 anni e si apprestano a trasferirsi dal repubblicano Iowa, il loro stato di nascita, al democratico Minnesota perché hanno un figlio transgender che, da qualche mese e precisamente da quando lo Stato ha approvato la legge per cui gli studenti e le studentesse devono usare i bagni della scuola secondo il genere affidato loro alla nascita, non si sente più al sicuro. Avendo già iniziato le cure ormonali da anni ed essendo quindi parecchio avanti nel processo di transizione, si chiede la madre, come potrebbe Julien usare il bagno delle ragazze?
Oggi Julien ha 16 anni, ha fatto coming out come ragazzo transgender quando ne aveva 11 e, racconta sempre la madre, per molto tempo le politiche locali non solo non criminalizzavano le scelte della sua famiglia, ma proprio non la toccavano. Adesso, dice, è cambiato tutto. Non si tratta più soltanto di “guerra culturale” su temi come i diritti delle minoranze, l’immigrazione, il politically correct: negli ultimi anni è la vita di tutti i giorni a essere cambiata.
Della loro storia, infatti, colpisce la descrizione di un Iowa gentile e, in passato, all’avanguardia nell’introduzione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, ad esempio; di un sobborgo - intorno a Des Moines, dove hanno vissuto per anni - in crescita e in armonia; di un gruppo di compagni di scuola in cui Julien trova ogni giorno supporto e rappresentazione. Eppure tutto questo non è stato sufficiente a frenare o contenere il senso di oppressione e pericolo dato dalle recenti politiche contro ogni declinazione (da quelle farmacologiche a quelle culturali) del gender-affirming. E quindi a spingere una famiglia ad andarsene.
Americans are increasingly fracturing as a people, and some are taking the extraordinary step of moving to escape a political or social climate they abhor. Democrats have left Iowa, Texas and other red states as Republicans have moved out of California, Oregon and other blue states, often over their views on issues like abortion, transgender rights, school curriculums, guns, race and a host of other matters.
Il pezzo include diversi altri esempi oltre a quelli della famiglia Huckins e della famiglia Noble. E da ognuno di questi racconti emergono due riflessioni, complementari ma opposte: 1) difficile, per noi, non empatizzare con le problematiche di queste persone, qualsiasi sia il nostro credo politico: se ben usate, storie come queste ci rendono un po’ più consapevoli delle somiglianze e delle differenze con un popolo a cui spesso tendiamo a sostituirci, e 2) difficile, per loro, empatizzare gli uni con gli altri e, di conseguenza, condividere uno stesso terreno. Che è anche la base di un buon funzionamento democratico. Ed è infatti questa la cosa preoccupante: non c’è un terreno comune per vivere, figuriamoci per dialogare.
Grazie per avermi seguita fin qui anche oggi! Di seguito trovi altre storie che potrebbero interessarti e al fondo due sondaggi in chiedo la tua opinione (e a cui spero risponderai). Ci sentiamo tra due sabati con un nuovo approfondimento.
Gennaio, ricapitoliamo
È stato un inizio del 2024 molto ricco, che è andato nella direzione che avevo delineato nella newsletter della crisi, quella di fine 2023. Si può fare di più (e lo farò), ma intanto - dicevo - è stato un buon inizio, soprattutto se osservato nel suo insieme (i contenuti editoriali della membership, delle due newsletter e di Telegram; Instagram ha molta meno rilevanza dal punto di vista creativo e critico).
Diamogli un’occhiata.
Dopo la newsletter sulla Louisiana di due sabati fa, è arrivata la tappa del podcast Miglia, che ha ampliato il discorso sulle atmosfere gotiche e stagnanti in cui vivono milioni di Americani del South. Atmosfere che fanno molto bene alla narrativa, molto meno bene a chi ci vive dentro.
La newsletter Mac&Cheese questo mese l’ho eccezionalmente scritta io e non Valeria né uno o una delle nostre recenti ospiti. Dalle terre Inuit del Canada a quelle soffocanti del Mississippi, ho trovato le storie di due content creator che scelgono di parlare di temi complessi e fare attivismo con dolcezza, grazia, gioia e calma. Si può fare. E, ti assicuro, è tonificante.
Ah, la cara vecchia California! Le radici dell’alienazione di oggi, della violenza del privilegio bianco e della perversione della ricchezza stanno tutte nel libro del mese di LIT, il bookclub della McMusa: Le schegge di Bret Easton Ellis. Qui sotto trovi un reel con tutti i libri letti nel 2023!
States, la newsletter che curo con Luciana Grosso per raccontare come i diversi Stati si avvicinano politicamente e culturalmente alle elezioni di novembre, procede alla grande! Il Delaware, lo stato di Biden, mi ha permesso di parlare di un piccolo capolavoro letterario che ti consiglio anche qui: Anche noi l’America di Cristina Henrìquez (link affiliato), una delle migliori storie che abbia mai letto sulla vita delle persone che migrano negli Stati Uniti dal Sud America per migliorare la propria vita. La Florida, invece, be’… della Florida non avrei più smesso di scrivere. Quanta ricchezza. Il nostro viaggio è ancora molto lungo, se vuoi unirti sei assolutamente ancora in tempo: domani saremo in Georgia e poi alle Hawaii!
Sul mio canale Telegram, infine, c’è stata una bella discussione sul tema: non è che in Italia il profondo interesse che nutriamo verso le elezioni presidenziali statunitensi rasenta l’ossessione? Perché sì, spesso ci sfugge il fatto che in molti altri paesi europei e negli stessi Stati Uniti il dispiegamento mediatico - e di conseguenza l’attenzione del pubblico - su questo tema è decisamente più moderato (io direi ragionevole, visto che lascia spazio a molte altre zone del mondo che noi in Italia non consideriamo), con conseguenze culturali a mio avviso molto interessanti.
Sondaggi
Ho un paio di domande per te. La prima è più leggera, legata alla pop culture. La seconda è più seria, più riflessiva ed è in linea con il lavoro critico che stiamo facendo qui e altrove da qualche tempo. Se queste risposte preconfezionate non ti bastano, ho lasciato aperti i commenti. Grazie!
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