Sogni Americani
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Il punto (di non ritorno) sull'America di oggi
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Il punto (di non ritorno) sull'America di oggi

Forse sempre lo stesso, ma più stringente
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Negli scorsi giorni su Instagram ho condiviso alcune parole e alcune considerazioni relative agli Stati Uniti: PAURA, INGENUITÀ, DISTANZA. Se non le hai lette ti consiglio vivamente di farlo (clicca sulle singole parole), servivano per arrivare fino a qui, a questa newsletter di fine anno che intende raccogliere le fila di quelle riflessioni recenti e fare un punto. Un punto a mio avviso piuttosto urgente.

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Breve premessa.

Come ho fatto nel libro, anche nel caso di queste considerazioni ho usato la mia personale esperienza (emotiva, concreta e intellettuale) come un mezzo per riflettere collettivamente. Come una possibilità per innescare un cambiamento di sguardo e consapevolezza di cui sono convinta ci sia ancora molto bisogno, soprattutto oggi. Il mio è un gesto intenzionale e studiato che nasce dalla constatazione che leggere - ebbene sì - serve a ben poco. Possiamo divorare tutto ciò che viene scritto sugli Stati Uniti (newsletter, saggi, romanzi, articoli di giornale, podcast) ma non sarà mai abbastanza. Continueremo a costruire castelli nel vuoto. Come lo so? Lo so perché vedo le reazioni delle persone che vengono in viaggio con me quando scoprono la povertà americana, le solitudini americane, i ghetti americani, le bandiere americane. Non avevano idea che fossero davvero così. E sono tutte persone molto preparate e attente, che hanno letto i miei contenuti e quelli scritti dai colleghi prima di partire, ma non sono comunque riuscite a sviluppare gli strumenti adatti per vedere (e a volte anche accettare) gli Stati Uniti per come sono in realtà. Non un errore loro, di certo. Più facilmente di chi l’America la racconta, in primis lei stessa.

Facendo leva sull’empatia e la condivisione, allora, ho provato a uscire da quel vuoto fatto di sole parole e a condividere un’esperienza di riflessione, proprio come accade in viaggio. Un’esperienza che, anche se è arrivata ancora attraverso lo schermo, spero abbia attivato nel pubblico anche delle altre cose, delle scosse emotive, e magari non sia stata del tutto inutile. So che è già stato così, per qualcuno, attraverso il viaggio emotivo di Sparire qui. Spero si possa andare avanti su questa strada anche oggi.

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Perché continuare ad andare negli Stati Uniti, dunque? Era questa la domanda a cui arrivavano le mie riflessioni degli scorsi giorni. Perché continuare ad avere gli Stati Uniti come approdo dei nostri passi e dei nostri progetti, nonostante siano oggi un posto piuttosto respingente?

Per prima cosa potremmo smettere. Io l’ho valutato spesso.

Privato come è attualmente della potente aura di possibilità che nel Novecento l’ha reso un impero, il paese in sé risulta ben poco affascinante, in particolare nei luoghi più turistici: le città - soprattutto quelle democratiche e mi riferisco a quelle che ho studiato di recente: NYC, LA, San Francisco, Austin, Portland, Seattle, Denver e Phoenix; salvo forse Chicago ed escludo Houston, che ha una storia particolare - sono luoghi oggi spersonalizzati e tutti allo stesso modo interessati da una disuguaglianza sociale ferocissima e apparentemente inarrestabile, che dona loro un’inquietante vena post-apocalittica: chi ha da vivere se lo tiene stretto e si rifugia sempre di più nel proprio privilegio, chi non ha da vivere allarga le fila degli homeless nelle tendopoli del centro o dei nomadi nei van o dei disperati nei ghetti o delle famiglie nelle case popolari (dove ci sono); chi sta in bilico tra i due ha paura, si indurisce e si isola. Oppure se ne va, svuotando interi quartieri che restano abbandonati. Mentre i prezzi degli altri continuano a salire smodatamente. Accade anche nelle città repubblicane, ma le città repubblicane sono molte meno, attirano poco i maggiori responsabili di questa disuguaglianza (professionisti qualificati, investitori, industrie tech o servizi del terziario) e hanno politiche ancora più disumane: i poveri li smantellano direttamente.

Il risultato è che visitare o abitare città del genere oggi è interessante per chi intende studiare o prendere parte per qualche motivo a questo fenomeno, ma più spesso si risolve in un’esperienza di impoverimento: a farne le spese, prima di ogni altra cosa, è l’umanità, l’elemento da sempre - a mio parere - più entusiasmante degli Stati Uniti. Sembra di mettere piede, ogni volta, in una disturbante distopia dove aleggiano, invisibili ma soverchianti, l’isolamento e il silenzio. I locali culturali vengono sostituiti con servizi di lusso (la parabola di Austin fa piangere), i negozi del centro chiudono, le occasioni di aggregazione diventano poche e carissime, le comunità si frammentano e si oppongono le une alle altre, le persone finiscono per dare un’importanza spropositata più alle loro micro esperienze che non a una reale comunicazione con gli altri, le storie degli esseri umani non sono più in circolazione.

L’avevo già scritto in questo pezzo, poco meno di un anno fa, in quella città in cui oggi le librerie chiudono per fare spazio a negozi di cristalli (true story) e tutte le persone ricche non fanno altro che parlare di cristalli, i poteri dei cristalli, i benefici dei cristalli, i posti migliori dove sistemare i cristalli. E a Skid Row, in centro, intanto a migliaia vivono sui marciapiedi come zombie.

Se questa è la situazione in tante città degli Stati Uniti, è così anche nel resto del paese? Com’è la società degli Stati Uniti fuori dai grandi centri? Ha smesso anch’essa di essere affascinante?

Dipende. E dipende da te, dipende fin dove sei disponibile a spingerti.

In quell’enorme porzione di paese che non è città, infatti, è pieno di gente che chiede considerazione, in modi e a persone che probabilmente noi non sceglieremmo mai. E che spesso, per questo motivo, consideriamo inferiori, di serie b, invisibili e fetenti. Degni di starsene dove stanno. Nonostante siano poi le persone che parlano più volentieri, che non vedono l’ora di uscire dall’isolamento dove invece gli altri si arroccano sempre di più, che esprimono un senso della realtà ben più radicato di chi è ossessionato dai cristalli (ti sembrerà che io stia esagerando, ma ti assicuro che una delle cose che oggi fa più spavento dell’America è vedere quanto siano alienate le persone che vivono nel privilegio). Questo video ne è la prova.

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È difficile ascoltare i discorsi di chi vive in questa enorme porzione di paese senza pensare che sia tutto sbagliato. Lo è, ed è proprio questo il punto: per evitare di smettere di andare negli Stati Uniti, perché non ci mettiamo in ascolto di chi racconta un’altra storia? Ascoltiamo chi si affida a un potenziale dittatore per uscire dalla povertà più estrema. Ascoltiamo chi ci mostra che gli Stati Uniti come grande narrazione democratica ed egualitaria hanno fallito. Ascoltiamo il messaggio profondo delle loro parole: non fanno paura, se noti. Sono solo schifosamente umane.

Come lo sono quelle di chi va a vivere negli altopiani sperduti del Colorado o nei deserti cocenti della California o tra i canyon selvaggi dell’Arizona perché è convinto che la natura estrema possa offrire maggiore accoglienza e sostentamento rispetto alla società feroce e ingiusta da cui arriva. Come lo sono le parole di chi vive nei pueblos o tra le baracche delle riserve indiane ed è abituato da secoli a intendere quello degli Stati Uniti come un racconto fasullo e abusante, con cui bisogna necessariamente convivere ma da cui è sempre bene differenziarsi, anche se spesso il suo potere è troppo forte. Come lo sono le storie delle città a prevalenza non bianca come El Paso e Detroit, dove ci sono problemi specifici ed essenziali da fronteggiare e tutto ciò che vale altrove lì è sospeso, relegato nell’ordine delle cose a cui badano le persone che non hanno realmente un problema. Come lo sono i racconti delle comunità latine, che non per niente sono contaminate da una cultura diversa da quella bianca dominante e nelle loro tradizioni (dalla lingua alla cucina alla religione) trovano futuro.

Nelle storie di queste persone e di queste comunità c’è l’aspetto umano e interessante degli Stati Uniti. E, se vogliamo continuare a guardare a questo paese come un punto di riferimento, guardiamo dove non guarda nessuno. Guardiamo nel fallimento, rovesciamo i presupposti di partenza. Andiamo da chi nella terra promessa non ha mai creduto perché sa benissimo - o ha dovuto capirlo a forza - che un posto è solo un posto e che nessun paese è tenuto a mettere in piedi un sogno, dividere i buoni dai cattivi, predicare successo e uguaglianza, tirare in ballo il destino manifesto per proclamare il proprio ruolo nel mondo. Perché quello si chiama ingannare.

Lo scrittore Nelson Algren li chiamava “i disarcionati”, quelli che sono rimasti al di qua della linea del sogno americano: sono loro la mia risposta alla domanda di partenza. Non perché diventeranno i primi e avranno successo, a questa bullshit spero che nessuno creda più. Ma perché attraverso la storia che queste persone raccontano possiamo risalire a quella dei primi, capire chi l’ha scritta e quando, soffocando quali voci ed esaltando al contrario quali sguardi. Per riscriverla da capo, questa storia, e così l’intero paese.

Sarà decisamente meno suggestiva, piacerà a molte meno persone e ci sarà sempre qualcuno che protesterà.

Ma almeno sarà una storia vera.

Grazie per avermi seguita fin qui anche oggi. Belle impegnative le ultime 4-5 newsletter, eh? Non è un caso: a parte quella scorsa sulle critiche al mio libro, le altre sono state frutto di severi approfondimenti sugli Stati Uniti, resi più urgenti e profondi da un lato dai miei viaggi e dall’altro dall’attualità e dalla pessima mostra che il paese ha fatto ancora una volta di sé attraverso le sue politiche.


Best of 2023

Se sei tra le persone che mi segue da più tempo o che mi ha frequentato assiduamente in questo ultimo anno, quello che ho scritto durante questa settimana sui social e qui non ti giungerà per nulla nuovo. Ormai è da parecchio tempo che cerco di ridimensionare la narrazione mainstream degli Stati Uniti con storie più aderenti al vero, critiche e minoritarie. Mi andava di farlo di nuovo, però, e da altri punti di vista: parlando con tante persone in questo periodo ho realizzato che non è mai, davvero, abbastanza.

Qui sotto trovi altri 3 consigli con cui andare avanti: sono alcune delle cose migliori firmate La McMusa nel 2023.

  1. La puntata di Miglia su Los Angeles, tratta interamente dal miglior saggio letto quest’anno sulla città: Everything Now di Rosecrans Baldwin.

  2. La puntata di LIT sulla graphic novel Palestina di Joe Sacco. Come dono di Natale ai lettori e alle lettrici di questa newsletter e come impegno che intendo portare avanti per un popolo che sta venendo spazzato via da un altro ed è bene al contrario che venga ricordato e valorizzato, oggi questa puntata del bookclub ti arriva free.

  1. La tappa di States in Arkansas, uno degli Stati più poveri e più rappresentativi dell’America che ti ho voluto mettere sotto gli occhi o nelle orecchie oggi.

    States
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Ancora grazie per essere qui e per questo anno trascorso insieme, ci risentiamo sabato 13 gennaio. Ti auguro buone Feste!

Sogni Americani
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Gli Stati Uniti raccontati dalle persone, dai luoghi, dai libri.
Dai risvegli.
La newsletter quindicinale di Marta Ciccolari Micaldi, aka La McMusa.