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Un vuoto chiamato Los Angeles
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Un vuoto chiamato Los Angeles

Cos'hanno in comune una mostra su Joan Didion e gli autobus della città

In questi giorni a Los Angeles c’è una mostra dedicata alla scrittrice Joan Didion. L’esposizione, che si intitola Joan Didion - What She Means (Joan Didion - Che cosa rappresenta), viene presentata come un ritratto dell’artista, come un racconto di una vita fatto attraverso la vita di qualcun altro. Decido di andare a vederla: sono in città da qualche giorno e Joan Didion non solo è tra le scrittrici che mi ha fatto apprezzare di più e conoscere meglio questo specifico spazio americano, ma è anche una delle voci che sta più vicina alle mie viscere, alle mie crepe. La mostra è all’Hammer Museum, un museo affiliato alla UCLA, l’Università della California, dove non sono ancora mai stata. Capita a fagiolo, come si dice, perché quel giorno è proprio mia intenzione andare a lavorare al campus, posso unire facilmente entrambe le cose. A Los Angeles spostarsi è difficile, muoversi può essere complicato se non del tutto infernale: se hai la possibilità di fare due cose nella stessa zona devi coglierla.

Esco quindi dalla casa di Santa Monica dove alloggio in questi giorni e mi dirigo verso la fermata dell’autobus: in questa città grossa come la Lombardia, sono fortunata a dover prendere solo un autobus per arrivare dove devo. In più, penso, qui gli autobus sono frequenti e più puntuali di quanto la mole del traffico mi lascerebbe supporre, costano pochissimo (le tariffe variano da 1,10 a 1,75 dollari a corsa) e hanno un grado di accessibilità che in Italia non ho mai visto: puoi pagarli a bordo in contanti o con tre tipi di tessere diverse, questa tessera puoi comodamente scaricarla da una app e ricaricarla dal cellulare anche se sei una visitatrice come me, se per caso hai una bicicletta l’autista scende e te la carica su un portapacchi gigante posizionato sul muso dell’autobus e, infine, i posti a sedere riservati a persone con disabilità o anziane o incinte sono tantissimi. Non che ce ne sia bisogno, tuttavia: tra le varie caratteristiche degli autobus di Los Angeles c’è infatti la vuotezza. A qualsiasi ora e praticamente ovunque, gli autobus di Los Angeles sono quasi deserti.

È deserto anche l’Hammer Museum quando ci arrivo: sono le 10.15, le sue porte aprono alle 10.30. Ne approfitto per fare un giro dell’isolato e osservare la vita intorno al campus la domenica mattina: qualche studente che corre, gli operai che continuano a lavorare sulla strada, le caffetterie che vanno a rallentatore. Quando finalmente arriva l’ora giusta entro dentro gli spazi del museo e mi avvio verso la mostra. Non appena varco la soglia dell’esposizione dedicata a Joan Didion, però, sento che qualcosa non funziona: non so cosa mi aspettassi di vedere o di provare lì dentro, ora che ci penso a posteriori, però di certo non quello che in effetti vidi e provai. La mostra è divisa in quattro sezioni che, seguendo un ordine cronologico e portando come nome il titolo di una sua opera abbinato alla zona degli Stati Uniti in cui in quel momento Joan viveva (da Sacramento alle Hawaii, da New York a Los Angeles), ritraggono non tanto la sua vita di donna e scrittrice quanto piuttosto la cultura dentro la quale ci si muoveva in quei luoghi e in quegli anni. E a cui senz’altro lei faceva riferimento, in un rapporto di influenze e contaminazioni reciproche. Supponendo di disegnare l’organizzazione della mostra, quindi, immagina un piccolo pianeta che è Didion al centro e poi, molto più visibili ma meno coerenti tra loro, centinaia di satelliti che raccontano altre storie (da John Wayne alla lotta femminista), altre voci (da Norman Mailer a Elton John), altri contesti (da Hollywood alle dighe della California) e altre forme (sono moltissime anche le sculture e le installazioni). Se non fosse per alcuni stralci delle opere di Joan Didion scritti sul muro mi potrei tranquillamente dimenticare che quella è una mostra a lei dedicata. Che, anzi, la intende proprio ritrarre. Passando di stanza in stanza, sento che niente comunica, che in mostra non c’è una delle mie scrittrici preferite ma al contrario c’è un vuoto. Un’incapacità di mettere le cose insieme. Vorrei incrociare gli occhi di qualcuno per vedere se anche altre persone provano la stessa cosa, ma non ne trovo, e quindi esco.

Quando infine salgo su un altro autobus - non mi sarei fermata a lavorare al campus, i miei piani nel frattempo erano cambiati - e scelgo un posto tra tutti quelli liberi, mi accorgo di una cosa: sono appena salita su un altro vuoto. Le persone non prendono il bus a Los Angeles perché usano esclusivamente la macchina e, in un giro ormai inestricabile di cause e conseguenze, i mezzi pubblici vengono usati per lo più da persone povere, lavoratori e lavoratrici che una macchina non se la possono permettere e senzatetto, quella numerosissima popolazione sotterranea che abita le ombre della città più scintillante d’America ma che, di fatto, nessuno sembra vedere. Nessuno sembra voler raggiungere. Nessuno sceglie per comunicare. Guardando fuori dal finestrino e ascoltando i discorsi di due di loro, allora, rifletto - non senza una certa tristezza - che forse quel giorno, in mostra davanti a me, non c’erano state la vita e l’opera di Joan Didion, la scrittrice più rappresentativa di Los Angeles da almeno tre generazioni, bensì la vita e l’opera dei mondi diversi che abitano questa unica città ma tra loro non comunicano, che si muovono su queste stesse strade ma non si toccano mai, che condividono lo spazio ma attorno a loro creano soprattutto vuoto.

Non era quello il proposito con cui ero partita la mattina da Santa Monica, ma senz’altro quello visto e vissuto in una banale domenica tra Westwood e Beverly Hills si era rivelato uno dei più adeguati ritratti dell’anima della Città degli Angeli oggi. Quello sì.

Grazie per avermi letta o ascoltata fin qui oggi! So che questo ritratto di Los Angeles può averti sorpresa o disturbato, continueremo a parlarne, già a partire da una cosa che ti accenno più sotto. Oggi, intanto, mentre ti mando questa newsletter sono in volo verso una nuova avventura, l’ho raccontata giorni fa in questo post qui sotto.

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La prossima newsletter dovrebbe uscire tra due sabati, il 18 febbraio, ma mi prendo il lusso di decidere all’ultimo se mandarla o meno. Sarò in vacanza, ma sto leggendo il nuovo romanzo di Bret Easton Ellis e altre cose, magari mi verrà voglia di raccontartele subito. E poi pensavo: ma a te interesserebbe saperne di più sull’esperienza di volontariato ecologico che farò in Costa Rica? Se prevarranno i sì, magari te ne racconterò alcuni aspetti… sempre che invece non decida di godermi la vacanza e basta 🐢

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Ma tornando a noi: se questo discorso su Los Angeles ti ha affascinato e vorresti portarlo avanti, domenica 12 febbraio uscirà la seconda puntata di Miglia, il podcast della mia membership che esplora gli Stati Uniti un miglio alla volta, una storia alla volta. La prima puntata ambientata ad Arcola, Illinois è stata un successone; questa in arrivo porta tutti i segni del mio amore e della mia disillusione verso la Città degli Angeli e ti farà conoscere delle storie losangeline che sono certa che non ti aspetti, a partire proprio da quella che dovrebbe insegnarci come vivere questa città così magmatica e distopica. Ti consiglio davvero tanto di ascoltarle!

Domenica 19 febbraio, invece, uscirà la nuova newsletter Mac&Cheese a cura di Valeria Sesia. E last but not least, è finalmente cominciato LIT - il bookclub della McMusa! Quanto trasporto e quanta partecipazione per questa prima riunione, sono davvero contenta. L’ho scritto più volte anche su Instagram, questa occasione di condivisione dà senso a molta parte del mio lavoro e sta venendo davvero bene. Davvero bene! Inutile dirti, quindi, che puoi entrare anche tu a far parte di questo viaggio americano, abbonandoti da qui: puoi farlo anche solo per un mese e vedere se ti piace, ascoltando/leggendo anche tutti i contenuti precedenti.

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Grazie ancora, allora, e alla prossima!

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