0:00
Current time: 0:00 / Total time: -8:48
-8:48

Crepe

Guardare attraverso Joan Didion

È il 1968, siamo nella prigione della Contea di Alameda e Joan Didion, trentaquattrenne, è andata a fare visita a Huey P. Newton, un militante nero di venticinque anni in attesa di processo, insieme ad altri due colleghi giornalisti. Sui giornali infatti si parla di lui, per strada si tengono comizi per la sua liberazione e da una parte considerevole della popolazione è considerato “un martire politico”.  Perché è in prigione? Huey P. Newton è accusato di aver ucciso John Frey Jr., un poliziotto bianco che a ottobre dell’anno precedente lo aveva fermato e interrogato nel desolato distretto tra San Francisco e Oakland ribattezzato dalla polizia stessa Beat 101A, di aver ferito un altro agente e rapito un passante. Il tema attorno a cui si sviluppa il caso, tuttavia, è più scottante di così, è più complesso, Joan Didion ne è affascinata - scrive - per quella che chiama “la sua alchimia” e risale all’anno ancora precedente: il 1966, l’anno della fondazione del Black Panther Party, le Pantere Nere.

Dopo che i giornalisti siedono e l’avvocato accende il registratore, Huey P. Newton entra nella stanza, sorride e, a quel punto, la sua storia potrebbe cominciare. Potrebbe cominciare perché cominciano le domande ma in realtà non comincia perché a quelle domande Huey P. Newton non risponde con la sua storia personale bensì con quella generale, quella a-personale, quella retorica:

Continuavo a desiderare che parlasse di sé, a sperare di aprire una breccia nel muro della retorica; ma lui sembrava uno di quegli autodidatti per i quali tutte le cose particolari e personali si presentano come campi minati da evitare anche a spese della coerenza, e per i quali la salvezza risiede nella generalizzazione.

E così Joan Didion, scrivendo di un uomo afroamericano accusato d’omicidio, scrivendo di un uomo lontano e distante da lei in forme e proporzioni di cui solo la storia avrebbe dato conto, finisce per scrivere una delle frasi più ferocemente chiare su quello che per lei è importante quando si racconta una storia: parlare di sé. Se non si parla di sé la storia non esiste se non nella sua forma più banale e piatta. O, meglio, noi ci raccontiamo storie per vivere e se non mettiamo al centro noi stessə allora quel centro sarà fasullo e non reggerà.

Ti sarà capitato di sentire molte volte queste due frasi a proposito di Joan Didion: una è l’inizio della sua seconda raccolta di saggi (The White Album, 1979: we tell ourselves stories in order to live), l’altra è il titolo del documentario che il nipote Griffin Dunne ha realizzato su di lei nel 2017 ed è ancora disponibile su Netflix (The Center Will Not Hold). Ti sarà capitato sia perché sono delle frasi splendide, sia perché - passate di bocca in bocca, di articolo in articolo, di gadget in gadget - hanno contribuito a rendere la sua autrice quel personaggio iconico, cool e piuttosto evanescente che è passato alla storia negli ultimi dieci anni e persino lo scorso 23 dicembre, quando Joan Didion - la persona - è morta.

A discapito, secondo me, di quella abbagliante chiarezza che lei aveva sempre cercato di sviscerare e restituire in ogni suo scritto. In ogni suo gesto. In ogni sua silenziosa posa e in ogni rumorosa missione giornalistica. Joan Didion ha messo al centro se stessa e ha sviscerato, in primis, la materia più difficile, più nascosta, più restia alla luce: la propria stessa carne. Le crepe della propria persona, giù giù a fondo, dove farebbe male a chiunque e dove per arrivarci ci vuole un gran bel coraggio: la perdita, la depressione, il sacrificio della femminilità, il rispetto di sé, il privilegio della classe, la confusione, la vecchiaia, la maternità, le radici, la fragilità, la distorsione dei sogni intimi e la colpa di quelli collettivi. Inclusi, sopra tutti gli altri, quelli americani, forgiati e stampati a fuoco nell'animo - come in quello dei suoi concittadini - dal suo stesso paese. Da macchine narrative - ancora e sempre storie - come quella di Hollywood, che lei conosceva benissimo e frequentava, consapevole del proprio vantaggio,  ma di cui - e questo ricordalo, la prossima volta che ti affaccerai sulle colline di Los Angeles - ci racconta molto più spesso la presenza sinistra: il sibilo dei serpenti a sonagli, gli ululati notturni dei coyote, gli squilli dei telefoni nelle ville dorate che annunciano omicidi, le macchine che vanno a fuoco, le donne che muoiono e quelle che sono ammazzate.

Guida alla lettura di J.D. qui

Neanche quattro pagine dopo aver raccontato il suo incontro con Huey P. Newton, Joan Didion riporta una lista. Avrai visto anche questa recentemente, magari sui social. Negli anni più vivaci della sua carriera di reporter – quelli che coincidono con la stesura dei testi contenuti in The White Album - tra i Sessanta e i Settanta, Didion teneva questa lista “fissata con il nastro adesivo all’interno dell’armadio a Hollywood”, dove aveva casa, appunto. È una lista di cose da mettere in valigia e non ha niente a che vedere con il giornalismo e tutto con la persona. Sono gli oggetti intimi di una donna che viaggiava e scriveva, che viaggiava per scrivere, che raccontava delle storie per vivere e che si sforzava di vivere la sua vita come fosse stata una sceneggiatura. Precisa, sotto controllo, una trama già conosciuta e appesa al muro.

Con una piccola assenza, tuttavia. Una dimenticanza fondamentale: l’orologio.

L’elemento che manca dalla lista e che, mancando, ci racconta di quella scrittrice più di quanto facciano tutte le cose che invece sono in presenza; quello che fa di una sceneggiatura già scritta una storia interessante; quello che fa di una vita particolare una storia esemplare: la fragilità, la debolezza, la volontà di voler tenere le cose sotto controllo e il non riuscirci.

Avrei dovuto avere una sceneggiatura, e io l’avevo smarrita. Avrei dovuto sentire le chiamate e non le sentivo più. Avrei dovuto sapere la trama, invece sapevo solo quel che vedevo: una serie di inquadrature in sequenza variabile, immagini senza alcun “significato” al di là della loro disposizione temporanea, non un film ma un’esperienza da sala montaggio.

Il 29 dicembre, l’altro ieri, il New Yorker ha pubblicato uno degli articoli più interessanti che abbia letto su Joan Didion dopo la sua morte: parla di crepe. Le sue. Quelle del suo mondo dorato e del suo paese malato, anche. Ma soprattutto le sue: le crepe di una donna incapace, come tutte e tutti, di tenere insieme le contraddizioni del proprio carattere; le crepe di una giornalista il cui pensiero non si è mai uniformato a quello degli altri; le crepe di una figlia che avrebbe dovuto nascere maschio; le crepe di una moglie e di una madre che è stata privata di entrambi i destinatari del suo amore più immenso e primitivo; le crepe di un’autrice che è riuscita a parlare di sé perché era l’unica cosa che le permetteva di conoscersi davvero ma anche perché era l’unico servizio che voleva tributare ai suoi lettori, alle sue lettrici. Aprire le proprie crepe per permettere a noi di guardarci attraverso.

Abbiate rispetto del suo sacrificio. 

Abbiate rispetto di Joan Didion.

Grazie per avermi seguito fin qui oggi. Questo mese la newsletter è uscita in ritardo, di solito non capita ma quante cose sono andate all’aria in questi ultimi giorni! Ti auguro di iniziare il 2022 prendendoti anche tu un po’ di quell’aria, di respirarla a pieni polmoni e di godertela. Noi ci risentiamo, se vorrai, il 30 gennaio.


Parte un viaggio letterario online

Farlo apposta sarebbe stato davvero troppo, ma proprio all’inizio del nuovo anno sono in programma ben due (grandi) eventi legati a Joan Didion. Il primo è il corso di letteratura americana dedicato alla California sua e di Bret Easton Ellis, che terrò online in collaborazione con il book club Scintille, in 6 appuntamenti, a partire dal 13 gennaio.

È rivolto a tuttə e le iscrizioni sono aperte!


Ripartono i tour letterari negli Stati Uniti

Ebbene sì. Il secondo evento legato a Joan Didion che annuncio oggi è la ripartenza dei Book Riders: torniamo a solcare le strade degli Stati Uniti in sella alla letteratura! O almeno ci proviamo: al momento la situazione è scoraggiante, ma per la prossima primavera contiamo di avere gli strumenti adatti (il vaccino triplo) e la possibilità (coadiuvata da ottime assicurazioni e l’assistenza costante di Xplore Tour Operator) di tornare a viaggiare verso l’America.

E il primo tour sarà proprio nei luoghi di Joan Didion!

  • 2-11 marzo 2022, CaliforNoir (Los Angeles + San Diego + deserto), 8 partecipanti

  • 14-24 aprile 2022, litPNW (Seattle + Portland + boschi), 8 partecipanti

Per info clicca sul nome dei tour oppure rispondi a questa mail.


Da non perdere

  • A proposito di Book Riders: non sai cosa sono? Vorresti partire con noi ma non hai idea di quali requisiti siano richiesti? Com’è fatta una giornata tipo in viaggio e quali potrebbero essere i tuoi compagni di van? Tutte le risposte a queste domande sono qui.

  • Il libro più bello di dicembre nonché uno dei più potenti dell’anno.

    A post shared by La McMusa (@la_mcmusa)
Sogni Americani
Sogni Americani
Gli Stati Uniti raccontati dalle persone, dai luoghi, dai libri.
Dai risvegli.
La newsletter quindicinale di Marta Ciccolari Micaldi, aka La McMusa.