Sogni Americani
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L'unica serie tv statunitense in cui si parla dei Palestinesi fa ridere
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L'unica serie tv statunitense in cui si parla dei Palestinesi fa ridere

Ed è pronta per la seconda stagione, che uscirà quando ridere sarà diventato impossibile

La rappresentazione delle persone arabo-palestinesi nei media americani è pressoché inesistente. Se la rivoluzione culturale a cui stiamo assistendo negli ultimi 15 anni è riuscita a sfondare il muro bianco della cultura mainstream e a dare maggiore voce e una più larga rappresentazione alle minoranze Black, latine, femminili e queer, ci sono ancora diverse comunità che vengono tenute totalmente fuori dalla produzione culturale, artistica e dell’informazione (penso a quella arabo-palestinese, certo, ma anche a quella araba in generale, così come a quella dei Nativi, dei nippoamericani e dei cinoamericani). Per motivi che riguardano il razzismo e il predominio culturale in atto da sempre negli Stati Uniti e con conseguenze gravi che convergono tutte su un unico fenomeno: la disumanizzazione.

Se non conosco le storie di una determinata gente, popolazione, comunità, famiglia, se non vedo e non ascolto le loro vite trovandovi, inevitabilmente, dei punti di contatto e le più umane delle somiglianze, la mia non conoscenza si trasforma in vuoto, il vuoto sfuma nel mio immaginario i contorni delle persone che non siamo “noi” e viene subitamente riempito da generalizzazioni, dalle narrazioni forti (spesso figlie proprio di quella cultura bianca mainstream che oltre a essere predominante è anche predona), dalle demonizzazioni, da false credenze che hanno poca o nessuna aderenza al vero.

Un esempio? Dimmi cosa provi quando leggi semplicemente questo nome: Mohammed.

Se sei stato onesto/a hai capito di cosa parlo.

Il mondo arabo entra nella narrazione occidentale e, soprattutto in quella statunitense, come sinonimo di terrorismo. Certamente il terrorismo islamico ha colpito brutalmente il mondo occidentale e gli Stati Uniti, ma non altrettanto sono riusciti a fare i racconti e i contesti arabi e islamici non terroristici. Che pure esistono, in enorme e schiacciante quantità, con varietà, qualità e ricchezza stupefacenti. Mi sento scema persino a scriverlo. Eppure.

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Questo ragazzo si chiama Mohammed Amer ed è un performer, uno scrittore e un attore palestinese che vive da più di 20 anni negli Stati Uniti ed è conosciuto come “Mo”. Che, se vivi negli Stati Uniti, dicevamo, in certi contesti è meglio di Mohammed. Mo è un rifugiato palestinese nato in Kuwait che ha fatto della sua storia di displacement e di trauma un racconto intorno a cui creare umanità, attirare sguardi, persino ridere. Mo, che nel video sopra vediamo insieme ad amici e amiche ebree e palestinesi, commosso nel chiedere al mondo e ai politici americani, lo scorso novembre, di guardare al suo popolo come a delle persone (non dei terroristi, non delle vittime sacrificali, non degli effetti collaterali, non degli affiliati ad Hamas… delle persone), è uno stand-up comedian. Un comico. Un artista che fa ridere il pubblico, sui temi più complicati e oscuri tanto della sua vita che della società di cui fa parte.

Dopo aver girato gli Stati Uniti e tantissime altre parti del mondo con i suoi due show comici che poi sono approdati anche su Netflix e di cui puoi vedere un brillante estratto nella clip qui sopra, nel 2022 Mohammed Amer è riuscito ad arrivare al grande pubblico grazie a una serie tv autobiografica intitolata proprio Mo (di cui ho già parlato qua e là sui miei canali e che mi fu consigliata a suo tempo da Valentina, un’amica e Book Rider che non finirò mai di ringraziare, la trovi sempre su Netflix). Nelle otto puntate da mezz’oretta che compongono la prima stagione, scritte insieme al regista americano di origine egiziana Ramy Youssef già conosciuto per aver scritto e interpretato la serie tv Ramy, Amer racconta la sua vita a Houston ai limiti della legalità: è da vent’anni, infatti, che aspetta che la sua richiesta d’asilo venga accettata dal governo americano e, nel frattempo, si deve barcamenare in lavori in nero, vendita di merce usata, intrallazzi di vario tipo e, ovviamente, burocrazia nonsense. Come dice nel trailer qui sotto, lui non ha la cittadinanza negli States, non può andare nemmeno in Palestina, in sostanza è un refugee free agent!

Viviamo le sue giornate insieme a lui conoscendo i suoi locali abituali (una Houston periferica più viva e vera che mai, la adora lui e la adoro io), il suo giro di conoscenze (il suo migliore amico è afroamericano, la sua fidanzata è messicana, i suoi amici di ogni parte del mondo), il rapporto con la madre, il fratello e con i parenti rimasti in Medio Oriente, i ricordi del padre che lo legano indissolubilmente a un sentimento di casa e di appartenenza che tuttavia non ha mai avuto un corrispettivo geografico, un posto a cui potersi associare (Mo, come moltissimi Palestinesi è profugo e stateless, senza una patria), le sue preghiere (e i conseguenti rapporti con le altre religioni, in primis il cattolicesimo della fidanzata) e le cose di tutti i giorni che abbiamo intorno e sono tutto ciò che siamo senza quasi che ce ne accorgiamo.

Come l’olio d’oliva per Mo, come gli ulivi per i Palestinesi.

L’elemento più commovente e identitario della serie tv, attraverso cui passa tutto il bagaglio culturale ed emotivo di un popolo costretto a non esistere più, a non “essere” più da ben 75 anni. Mo se ne porta sempre una boccetta dietro, è l’ingrediente segreto per l’hummus migliore ma è soprattutto il suo antidoto contro le ingiustizie, il malumore, ogni tipo di difficoltà grande o piccola. È il simbolo di casa. La madre di Mo, invece, lo tratta con venerazione e parsimonia, è il suo legame più forte con il posto in cui invece lei è riuscita almeno a nascere, proprio nell’anno della nakba, il 1948, l’anno in cui in Palestina arrivarono gli Israeliani e iniziò la catastrofe. La stessa che si sta acuendo davanti ai nostri occhi da otto mesi, ma che in realtà, come racconta lo stesso Mohammed in questa unica intervista rilasciata dallo scorso ottobre, non è mai realmente finita e, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ha creato un senso di displacement, un buco e un senso di isolamento e umiliazione nell’anima dei Palestinesi che condiziona tutta la loro vita e che non prova praticamente nessun altro al mondo.

Chi legge questa newsletter questa connessione l’ha già fatta, grazie proprio all’olio di oliva e agli ulivi.

Questa è una delle scene più umili, umilianti e per questo incisive dell’unica altra grande opera pop che ha raccontato la Palestina e i Palestinesi al pubblico americano prima del recente conflitto: la graphic novel di Joe Sacco Palestina di cui parlai in una newsletter dello scorso autunno e in una puntata del mio bookclub LIT, che condivido nuovamente qui con te e tutti gli altri lettori e lettrici di Sogni Americani vista l’eccezionalità del momento, normalmente è a pagamento. Più persone la conoscono e meglio è: è un libro che dà molte risposte, senza mai calcare sulle domande.

Mo, invece, di risposte non ne dà neanche mezza, la sua serie tv fa qualcosa di diverso: rappresenta. Che è ciò che manca, come dicevamo, alla sua gente. Umanizza i Palestinesi dando loro voce, rappresentazione, spazio e consistenza (che non vuol dire santificazione né vittimizzazione, ma proprio umanità a 360 gradi). Quando uscirà la seconda stagione non so francamente se questo basterà: nel frattempo si sarà consumato uno sterminio di proporzioni storiche e forse molte meno persone avranno voglia di riderci sopra. Eppure, anche per questo Mohammed ha una soluzione, terribile ma vera: non è nulla di nuovo. È più grave e massiccio, ma i Palestinesi fanno esperienza di questa sopraffazione e di questa violenza - a Gaza come in Cisgiordania - dal 1948. La commedia, dice lui, ha il potere di creare comprensione e forse ci riuscirà anche una seconda volta.

And quite frankly, the sad part is that the fundamental issues have not changed, because it’s not the first time Gaza has been under bombardment. It’s not the first time the West Bank is experiencing this kind of settler violence. It’s all elevated and heightened, of course, but it’s not anything new so it doesn’t shift the perspective on the show as much as you would think. It just more puts the pressure on us to make sure that we execute it to the best of our ability and we amplify the humanity of it all. Comedy is an extremely powerful tool to create understanding. It sounds so cliche and corny, but it’s true.

Grazie per avermi seguita fin qui oggi, la newsletter non finisce qui, ci sono i consueti aggiornamenti!


Notizie da non perdere

  • Come ho scritto sinteticamente nella scorsa newsletter ormai 3 settimane fa, questo autunno ci saranno due tour dei Book Riders. Uno è già andato sold out in pochi giorni, quello nel Lit PNW, l’altro, quello nel Colorado Roots, ha ancora 2 posti liberi. Chi ha letto il mio memoir Sparire qui sa che si tratta del mio tour migliore: la completezza degli argomenti, la scelta delle tappe letterarie e di quelle paesaggistiche, l’incredibile bellezza della natura che nasconde e rivela la complessità politica e sociale tanto del passato quanto del presente, insomma ogni piccolo e grande dettaglio di questo viaggio concorre a definire un’esperienza americana davvero stratificata e importante (oltre che indimenticabile). Lo ribadisco meglio qui sotto, lo fa vedere bene questa playlist video.

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  • La prossima settimana avremo diverse occasioni per vederci, sia online che dal vivo: mercoledì 29 maggio comincia un nuovo corso di letteratura americana dedicato esclusivamente a Cormac McCarthy. In quattro appuntamenti serali online (che saranno registrati per chi non potrà seguire le lezioni dalle 18.30 alle 20), il corso Leggere Cormac McCarhty intende fornire un approfondimento sull’opera di uno dei più grandi scrittori americani di tutti i tempi, e in particolare su quei romanzi che hanno usato il paesaggio e le tematiche western e gotiche per raccontare il grande e insondabile mistero della vita degli uomini, delle donne, dell’anima. Qui i dettagli lezione per lezione e le modalità di iscrizione.

  • Lunedì 27 maggio alle 19, invece, si riunirà LIT, il bookclub della McMusa, per discutere insieme Stay True di Hua Hsu, vincitore del Premio Pulitzer 2023 nella categoria memoir (leggo ancora commenti assurdi sul perché io abbia dovuto parlare di me nel mio libro e il premio giornalistico più importante del mondo ha una categoria dedicata al memoir: solo per mettere le cose in prospettiva, eh).

  • A proposito del mio memoir, sono passati 9 mesi dalla pubblicazione (nell’editoria un tempo lunghissimo) ma le presentazioni continuano! Insieme a quelle di altri libri americani: sarò ad Aosta e a Verbania, ho aggiornato e continuerò ad aggiornare la pagina degli appuntamenti del mio sito, tienila d’occhio!

Ci vediamo presto, dunque. Se no ci sentiamo qui tra due settimane. Ciao 🇵🇸

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Gli Stati Uniti raccontati dalle persone, dai luoghi, dai libri.
Dai risvegli.
La newsletter quindicinale di Marta Ciccolari Micaldi, aka La McMusa.