Sogni Americani
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Uccidi l'indiano che è in loro, salva l'uomo
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Uccidi l'indiano che è in loro, salva l'uomo

Le scuole speciali per bambine e bambini nativi, le regole dell'assimilazione, gli abusi sessuali

Il genocidio non dispiega le proprie forze solo attraverso la violenza della guerra, l’annichilimento fisico, l’eliminazione materiale dei corpi. Il genocidio - quello che porta alla reale sparizione di una “gente” - è un processo complesso e sfaccettato, che richiede tempo e incorpora pratiche e dinamiche meno manifeste, che non hanno a che fare con l’annientamento materiale di persone, comunità, case, infrastrutture, scuole, campi agricoli, industrie e così via ma agiscono in senso complementare sulle relazioni, sull’immagine e, soprattutto, sulla cultura dei popoli, la loro quintessenza. Attraverso azioni più o meno programmatiche e strutturate (ma tutte necessarie, non si elimina un popolo che gode di buona reputazione, prima e durante l’eliminazione fisica bisogna costruire una narrazione in cui tale popolo risulta un nemico, un reietto, un barbaro, un terrorista) che vanno dalla manipolazione alla profanazione, dall’umiliazione alla sostituzione, dall’abuso all’assimilazione.

Quest’ultima è quella su cui si concentra la newsletter di oggi, una newsletter che mi è nata spontaneamente tra le mani grazie alla lettura molto ravvicinata di testi diversi che parlavano tutti della stessa cosa: le Boarding Schools degli Stati Uniti, ovvero quel sistema di istituti scolastici che dal 1819 al 1969 hanno accolto centinaia di migliaia di bambine e bambini indigeni strappati con la violenza ai genitori e alle loro tribù, caricati su carri o bus che li avrebbero portati a centinaia, migliaia di miglia lontano dalle loro case e in ultimo trasformati da indians ad americans. Da barbari a uomini e donne. Per generazioni.

Il loro motto era, in questo senso, così chiaro e conciso da fare paura: Kill the Indian, save the man. Uccidi l’indiano, salva l’uomo. Cosa che queste scuole fecero con meticolosità, a partire dagli elementi culturali dell’aspetto fisico di questi bambini e bambine: i capelli lunghi e gli abiti.

E, subito dopo, i loro nomi.

Queste immagini arrivano da un servizio esclusivo del Washington Post pubblicato lo scorso 29 maggio in due parti (questa più narrativa e questa più riassuntiva e visiva) a cui se ne è aggiunta una terza con le reazioni e i commenti di lettori e lettrici (molto interessante). Il servizio intitolato In the Name of God (il primo) raccoglie le testimonianze di alcune persone native che frequentarono le scuole quando erano bambine (dai 5 ai 15 anni) e lì subirono abusi. Non soltanto psicologici e fisici (alcuni venivano picchiati se usavano la loro lingua o il loro nome, altri venivano “lavati” con liquidi disinfestanti e velenosi, tutti venivano privati della possibilità di vedere i propri genitori) ma anche sessuali. E l’esclusiva del Washington Post sta proprio qui: attraverso un’inchiesta meticolosa che ha coinvolto un team di giornalisti, innumerevoli viaggi, interviste alle vittime, richieste di contatto a membri del governo, studi di archivi e di altre prove, si è stabilito che più di 1000 bambini e bambine (ma si stima che siano molti di più) furono abusati sessualmente da 122 preti, suore e fratelli di alcune delle 80 Boarding Schools gestite da ordini religiosi (tra cui Orsoline, Gesuiti e altri). Su un totale di 523 Boarding Schools fondate e finanziate dal governo degli Stati Uniti, una buona percentuale, infatti, veniva affidata a chi avrebbe educato questa giovane barbarie nel nome di Dio, favorendo quindi anche la loro conversione. Un altro efficace strumento per spezzare il legame spirituale e rituale con le proprie famiglie e comunità di appartenenza.

A systematic effort by the federal government to destroy Native American culture, assimilate children into White society and seize tribal lands.

Gli abusi sessuali che vengono raccontati dalle vittime sono diversi: dal sesso orale praticato da alcune suore sui bambini alla penetrazione delle bambine, dai palpeggiamenti in grembo ai preti a pratiche perverse con uso della violenza e di oggetti terzi. “A national crime scene”, come la chiama Deborah Parker, oggi a capo della National Native American Boarding School Healing Coalition. Un obbrobrio che si unisce agli altri mezzi di sterminio messi in atto dal governo degli Stati Uniti, per cui né le istituzioni politiche né quelle religiose hanno ancora chiesto scusa o proposto risarcimenti, nonostante - come ti racconterò tra poco - qualcosa di importante comincia a cambiare.

Di fondo, infatti, rimane quella granitica disparità strutturale che regola i rapporti tra le due culture: quella dominante (gli Stati Uniti bianchi) che sulla terra che le spettava secondo i principi del destino manifesto ha costruito la migliore delle società possibili (qui questo concetto viene spiegato chiarissimamente, proprio in relazione al furto della terra indigena) e quella dominata, a cui è difficilissimo credere quando denuncia efferate violenze proprio a causa della distanza, della distorsione, della cattiva reputazione in cui è stata confinata dalla prima.

The self-serving concept of manifest destiny, the belief that the expansion of the United States was divinely ordained, justifiable, and inevitable, was used to rationalize the removal of American Indians from their native homelands.

Proprio a dimostrazione del fatto che, però, ultimamente la sensibilità verso il genocidio dei Nativi sta cambiando, negli stessi giorni in cui leggevo i servizi del Washington Post leggevo anche il secondo romanzo appena uscito di Tommy Orange, uno dei più apprezzati scrittori nativoamericani di ultima generazione. Stelle vaganti comincia proprio così:

C'erano figli, e c'erano figli degli indiani, poiché gli spietati, selvaggi abitanti di queste terre americane non facevano figli ma uova di parassiti, e le uova generano pidocchi, o così diceva colui che intendeva far passare per disinfestazione un massacro come quello di Sand Creek, dove all'alba settecento uomini ubriachi aprirono il fuoco con i cannoni, e come ciò che avvenne quasi lo stesso giorno di quattro anni dopo sulle rive del fiume Washita, dove a cose fatte settecento cavalli indiani vennero radunati e abbattuti con un proiettile alla testa.
Questi eventi vennero chiamati battaglie, e più tardi - ma non sempre - massacri, nella guerra più lunga d'America. Più anni in guerra con gli indiani che con altre nazioni. Trecentotredici anni. Dopo tutti i massacri e i trasferimenti forzati, tutte le dispersioni e i rastrellamenti di indiani per rinchiuderli nelle riserve, e dopo la riduzione della popolazione dei bisonti da circa trenta milioni a poche centinaia di esemplari in libertà sulla base del principio che "ogni bisonte ucciso è un indiano di meno", si diffuse un altro slogan riguardo al problema indiano: "Uccidi l'Indiano, salva l'Uomo".
Quando le guerre indiane cominciarono a esaurirsi, e il furto di terre e sovranità tribali divenne burocratico, si dedicarono ai figli degli indiani, mettendoli a forza in collegio, dove se non morivano ufficialmente di quella che veniva chiamata "consunzione", anche se erano costantemente ridotti alla fame; se non si sfiancavano preparandosi al lavoro agricolo o industriale o alla servitù debitoria; se non venivano sepolti nei cimiteri dei bambini o in tombe senza nome; se non andavano dispersi mentre tornavano a casa da scuola, fuggendo e finendo senza sepoltura, mai più trovati, perduti per sempre o smarriti tra esilio e rifugio, tra scuola, terra natia tribale, riserva e città; se scampavano ai regolari pestaggi e stupri; se sopravvivevano e si facevano una vita, una famiglia e una casa, la ragione era una e una sola, e cioè che quei figli degli indiani erano fatti per sopportare più di quello che erano costretti a subire.

E non si può dire che non sia così, visto che oggi continuiamo ad ascoltare, leggere e considerare le loro voci, anche se a un prezzo terribile. E in cambio di una fatica che molte poche persone sono disposte a sostenere, sia da un lato (rievocazione del trauma) che dall’altro (messa in discussione del proprio potere e privilegio). Una di queste voci è quella di Deb Haaland, la prima donna nativa a ricoprire la carica di Segretario dell’Interno dell’amministrazione Biden, attualmente in carica per il Dipartimento dell’Interno. Il suo profilo sul New Yorker uscito lo scorso 29 aprile è il testo che ha completato le mie letture a tema di questi giorni (te lo consiglio, si può anche ascoltare). E le ha, in qualche modo, incluse tutte e portate verso una conclusione non distruttiva: oggi negli Stati Uniti esistono 574 tribù indigene e le persone native (discendenti da due genitori nativi o uno solo) sono più di 9 milioni, circa il 3% del totale della popolazione statunitense. Quest’anno ricorre il centenario del loro diritto al voto: prima del 1924 non potevano partecipare alla vita pubblica del loro stesso Paese. Haaland invita a considerare la forza politica di queste persone oggi. Una forza che non ha un’unica appartenenza partitica ma che nondimeno potrebbe rappresentare una risorsa per l’una o l’altra fazione, nonostante a votare vadano in pochissimi.

“Pochissimi”, però, non è un concetto che spaventa chi è sopravvissuto a un genocidio: è meglio di “nessuno”. Haaland fa proposte che nessun altro al governo fa, ha un comportamento che nessun altro mette in atto in questa epoca: ascolta per minuti interi i suoi interlocutori senza mai interrompere, partecipa in ciò che ascolta dando tempo e spazio a chi non ne ha avuto (le persone native come lei) o a chi ha una storia, qualsiasi storia, da portarle all’attenzione. Anche quelle a lei meno gradite. Crede in forme del cambiamento che hanno radici molto lontane, in una cultura che è ancora discriminata ma ogni giorno un pochino più forte, in una ritualità che è estranea alla cultura dominante e forse proprio per questo, però, salvifica.

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E il pezzo del New Yorker termina con un paio di domande che, alla luce di quanto ho raccontato oggi, faccio mie: sapendo adesso queste cose, oggi cosa scegli di leggere? A cosa scegli di pensare? Che cosa scegli di conoscere?

E la risposta vale per tutto. Per gli Stati Uniti e il genocidio dei Nativi, ma anche e soprattutto per la relazione di Israele con la Palestina, che è l’edizione contemporanea di questa stessa identica storia, come confido tu abbia già capito.

Grazie per avermi seguita fin qui oggi, ti raccomando di dare almeno un’occhiata a tutti gli articoli citati e, se vuoi, di unirti al mio boocklub LIT che questo mese legge proprio il romanzo di Tommy Orange. Prima di salutarci, al solito guarda qui sotto.


Poche ma buone: le news di oggi

  • Ci sono questi due posti per il tour dei Book Riders in Colorado dell’autunno che ancora vagano e aspettano di essere presi! Tutto ciò che ho raccontato oggi, insieme agli aspetti più mastodontici e ancora intatti della natura selvaggia e a quelli più interessanti delle culture che qui sono nate, sono sopravvissute e si sono poi intrecciate nei secoli si spalanca davanti ai nostri occhi per tutti e 13 i giorni di viaggio. È un condensato di America che difficilmente si trova altrove. E la letteratura lo rispecchia fedelmente: qui sotto trovi alcuni suggerimenti di lettura, nel caso proprio non potessi venire!

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  • Io e Luciana Grosso abbiamo superato la metà della nostra newsletter States già da qualche settimana: domani saremo in New Hampshire, poi ne arrivano tre di tutto rispetto, New Jersey, New York e New Mexico. Sono gioie e dolori per ognuno, se li affrontiamo insieme è meglio, che ne dici? Ti aspettiamo!

Ci sentiamo in ogni caso tra due settimane, sempre qui. Grazie e buon weekend!

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La newsletter quindicinale di Marta Ciccolari Micaldi, aka La McMusa.