Sogni Americani
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Cucire le stelle, cucire le strisce
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Cucire le stelle, cucire le strisce

La storia esemplare

La prima volta in cui misi piede negli Stati Uniti fu a New York e non me ne accorsi. La seconda fu in Illinois e non riuscii mai più a non notarlo: tutto il territorio statunitense è un’unica, grande, enorme bandiera a stelle e strisce. Compare ovunque: fuori dall’aeroporto, davanti ai centri commerciali e ai locali, sulle porte e nei giardini delle case, di fianco alle autostrade (enormi, le vedi da chilometri di distanza, sono tra le più suggestive), sopra gli edifici governativi ma anche sportivi, aziendali, religiosi, scolastici, clinici, privati. Niente è più americano della bandiera americana. Eppure, proprio nel caso della bandiera a stelle e strisce, niente è meno definibile dell’aggettivo americano.

Se, infatti, la bandiera viene onorata da tutti senza distinzione politica e tanto le persone democratiche quanto quelle repubblicane la espongono fuori dalle proprie case e si sentono rappresentate dai suoi colori, è altrettanto vero che quegli stessi colori, quelle stesse stelle e strisce hanno finito per rappresentare nel corso degli ultimi tempi storie, valori, dinamiche completamente differenti. Americhe completamente differenti. Futuri dell’America completamente differenti. E se per capire questa frammentazione simbolica può essere utile parlare con le persone interessate, osservare i momenti in cui la bandiera viene ostentata e da quali mani, tenere d’occhio e capire gli accostamenti o le modifiche a cui la bandiera a stelle e strisce viene sottoposta, da qualche tempo c’è in realtà un modo molto più suggestivo, chiaro ed esemplare con cui poter arrivare alle stesse conclusioni, per di più in breve tempo. Mettersi dalla parte di chi le bandiere americane le fa. Le cuce. Le costruisce. I cosiddetti flagmakers.

The Flagmakers è un breve documentario di 35 minuti realizzato dal National Geographic e distribuito da qualche settimana su Disney+. Diretto da due registe americane pluripremiate e da sempre dedite a temi e soggetti socialmente rilevanti, Cynthia Wade e Sharon Liese, è una riflessione sul concetto di American Dream - come si sposa bene con questa newsletter, eh? - sviluppata a partire da una fabbrica di bandiere degli Stati Uniti, quella più famosa e produttiva del paese, quella di Oak Creek in Wisconsin: le persone che vi lavorano rappresentano la quintessenza dell’americanità, in tutte le sue declinazioni possibili. A partire proprio dai vertici.

La direttrice della fabbrica, infatti, è Radica, una signora serba immigrata negli Stati Uniti, terribilmente grata al paese che l’ha ospitata per gran parte della vita e che le ha dato molte più possibilità di quello in cui è nata, ma anche intenzionata a tornare in patria una volta raggiunta l’età della pensione: sotto la sua guida, espressa con un garbo molto esplicito e sonoro così come il suo accento, ogni giorno la fabbrica apre le porte a impiegati e impiegate che arrivano da ogni parte del mondo e che si stringono, letteralmente e senza distinzioni, sotto un’unica bandiera. La bandiera americana che quel giorno devono costruire, cucire, fabbricare e che, nel prendere forma sotto le loro mani striscia dopo striscia e stella dopo stella, rappresenta nel concreto i loro sogni, le loro aspirazioni e le loro frustrazioni. Se quindi, da un lato, la regia del documentario segue i momenti più significativi di una normale giornata di lavoro in fabbrica - fabbrica che di bandiere ne produce fino a 5 milioni l’anno, inclusa quella che sventola sopra la Statua della Libertà - e ci offre la possibilità di entrare nel backstage del più grande e fulgido simbolo degli Stati Uniti, dall’altro si concentra su un numero ristretto di persone e ci mostra uno spettro piuttosto vario e complesso dei valori che quel simbolo ha finito oggi per rappresentare.

Cominciando da chi l’ha messo in crisi. SugarRay, un ragazzo afroamericano nato e cresciuto a Milwaukee, nella bandiera americana non ci crede più: dopo gli omicidi di George Floyd e di Jacob Blake (ucciso a Kenosha, proprio in Wisconsin, nell’agosto del 2020) si chiede che senso abbia onorare un paese che non onora gran parte dei suoi cittadini e delle sue cittadine. Vorrebbe essere fedele a quella bandiera, ma come può, chiede alla telecamera e a noi che lo ascoltiamo e lo guardiamo entrare in quella fabbrica giorno dopo giorno, protesta dopo protesta, ingiustizia dopo ingiustizia. La domanda rimane senza risposta. Di tutt’altro parere è Barb, una donna bianca del Midwest di forte credo conservatore, sostenitrice di Trump e accanita fumatrice. Tanto accanita quanto impossibilitata a pagare le medicine che le servirebbero per curare i numerosi problemi di salute che la affliggono: nonostante ogni colpo di tosse sia un avvertimento, però, lei si ostina a credere con tutta se stessa alla forza dell’America che, dalla bandiera sotto le sue mani, deve e può passare direttamente a lei. Una di queste bandiere, infatti, l’ha messa nel giardino di casa, accanto a quella di Trump, che ancora, incrollabilmente, sostiene. Un sentimento simile ce l’ha anche Ali, un soldato iracheno rifugiato negli Stati Uniti da soli 90 giorni, che impara a cucire le strisce della bandiera cercando di ricacciare indietro quel groppone di commozione, sofferenza, trauma, paura e gratitudine che gli offusca tanto la vista quanto la voce. Nonostante sia stato aggredito e picchiato qualche giorno prima in un Walmart a causa della sua provenienza, per lui e per tanti dei suoi colleghi e delle sue colleghe, l’America - e con lei ovviamente la sua bandiera - rappresenta ancora la possibilità di una vita migliore, di un futuro possibile, di una terra promessa.

Nella fabbrica della bandiera americana si parlano tutte le lingue del mondo, si arriva da tutte le parti del mondo (Iraq, Tanzania, Messico, Algeria, Serbia, Bosnia, per dirne alcune) e si hanno le idee più diverse e varie del mondo. Se ti capiterà di guardare il documentario, vedrai che a un certo punto una delle donne in questa foto dice una frase fortissima, una frase che si riferisce al processo di fabbricazione delle bandiere ma che, a ben vedere, vale tanto per il simbolo a stelle e strisce quanto per il paese che quel simbolo rappresenta: “una bandiera non è fatta da una sola persona.” E neanche lo è l’America. Anzi: l’America è tale proprio perché è formata da tutte le persone del mondo.

Grazie per avermi letta fin qui oggi! The Flagmakers potrebbe essere candidato agli Oscar e io faccio un gran tifo. Se ti va di guardarlo e di dirmi poi la tua opinione, sai dove trovarmi. Intanto noi ci sentiamo tra due settimane… dagli Stati Uniti 🥳


Appuntamenti e novità

  • La prossima settimana inaugura LIT, il bookclub della McMusa che fa parte della membership. Tantissime persone si sono iscritte nell’ultimo mese: grazie di cuore! Non vedo l’ora di cominciare e di riempire i nostri appuntamenti di letture americane illuminate, accese, cool ed eccitanti, come vuole il nome stesso del nostro bookclub. Inizieremo dal nuovo romanzo di Angie Cruz, Come non perdersi in un bicchier d’acqua: un libro che ti farà passare la paura di ricominciare da capo e che, guarda caso, si sposa benissimo con i temi e i contenuti di questa newsletter. Se ti va puoi acquistarlo da qui. E, ovviamente, puoi unirti al gruppo da qui!

  • I tour dei Book Riders annunciati nella scorsa newsletter hanno fatto il botto! Sono state tantissime e velocissime le adesioni arrivate in un solo weekend. Ma c’è ancora qualche posto disponibile, soprattutto per il tour Rockin’ Jersey e per la prima edizione della New York Factory. Se vuoi unirti o anche solo dare un’occhiata, vai qui.

Io non vedo l’ora di partire!

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La newsletter quindicinale di Marta Ciccolari Micaldi, aka La McMusa.