Sogni Americani
Sogni Americani
Non si chiama breakdance
0:00
-10:00

Non si chiama breakdance

Alle Olimpiadi di Parigi arriva il Bronx, e non è del tutto una buona notizia

Si chiama breaking. Nato negli anni Settanta ed esploso negli anni Ottanta nel Bronx, oggi che ha praticamente 50 anni il breaking - un linguaggio, un codice, un’espressione prima di ogni altra cosa, e senz’altro prima di essere definito uno sport - è approdato per la prima volta alle Olimpiadi. Venerdì 9 e sabato 10 agosto 2024, prima le b-girls e poi i b-boys - così si chiamano le e gli sfidanti di breaking - si sono esibiti e confrontati in diverse battles che hanno sancito l’accesso alle qualificazioni e poi, ovviamente, alle finali. In un mix di atletica, pop culture, funk, disco e scenografia da luna park (le gare sono avvenute in un’arena tonda per certi versi simile a quella di un circo, su cui troneggiava la riproduzione gigante di un vecchio radiolone anni Settanta sotto il quale erano sistemati due dj e nove giudici), le competizioni di breaking possono aver dato - e dare ancora, in futuro - una sensazione un po’ posticcia o bizzarra a chi le ha viste, soprattutto a chi è abituato a cercare nelle Olimpiadi una certa tradizione e continuità di discipline sportive: pallavolo, tiro, nuoto, pugilato, ginnastica ritmica, ginnastica artistica e soprattutto atletica. La parte che molta gente del vecchio pubblico considera la “vera Olimpiade”.

Peccato, però, che nel caso del breaking non sia affatto quello il pubblico di riferimento. Né, tantomeno, lo è la popolazione che il breaking lo ha addirittura inventato. Oggi è arrivato a Parigi un pezzo della storia più sofferta, nascosta e carismatica del Bronx e lo ha fatto per uno di quei cortocircuiti della storia per cui una cultura underground, ripulita e addomesticata da decenni di circolazione, deve ridare spolvero a quella mainstream: il problema, infatti, è che alle Olimpiadi manca il pubblico giovane. E per attirarlo, per coinvolgerlo, per riportarlo a sé la grande macchina dell’Olimpiade ha prima introdotto il surf, poi lo skateboard, poi l’arrampicata e nel 2024 il breaking.

A post shared by @paris2024

Funziona così e non è necessariamente una dinamica tossica: il dibattito intorno a questa nuova disciplina olimpica è vivo, interessante e pieno di opinioni diverse che non possono che, a mio parere, portare verso qualcosa di buono. Quel che è certo, però, è che ci sono alcune cose base da conoscere e mi fa piacere - oggi che le Olimpiadi stanno volgendo verso la fine, dopo aver lasciato un segno davvero rimarchevole nella vita di tanti e tante di noi - raccontartele, anche perché ben si inseriscono nel tipo di storie che trovi in Sogni Americani di solito. Anzi, su questo faccio una brevissima digressione.

Anche se non avessi trovato interessante la storia del breaking oggi avrei comunque parlato qui di Olimpiadi: gli atleti e le atlete - e mi riferisco solo ed esclusivamente a loro, veri protagonisti dei Giochi: non di Parigi, non del giornalismo che gli sta intorno, non delle regole di ammissione delle squadre, non dei cromosomi né della schifosissima Senna - ancora una volta ci hanno dimostrato come si può stare insieme seguendo regole e valori condivisi, scegliendo traguardi comuni che tendono al divino e impegnandosi al meglio non solo per raggiungerli ma anche per farlo senza mettere in atto invidia, umiliazione, senso di prevaricazione, sporche scuse e luridi pregiudizi (tranne qualcuno, è vero). Ogni quattro estati e ogni quattro inverni per me si ferma il mondo perché le Olimpiadi mi danno modo di ritornarci poi, in quel mondo, con più fiducia e più vicinanza verso chi mi sta intorno, che sia più o meno lontano. E, come è accaduto quest’anno, anche con più ispirazione, sensibilità (tutte quei sorrisi e quelle lacrime!) e voglia di migliorarmi. Sono certa che è accaduto a tantissime altre persone e magari anche a te.

Ma dicevamo.

Il breaking nasce negli anni Settanta insieme all’hip-hop ed è espressione di quel mondo giovanile Black e latino che a quel tempo cercava di combattere la povertà, la disoccupazione, la discriminazione, l’erosione della speranza e la violenza di strada dando proprio agli elementi della strada un nuovo significato, una nuova vita. Là dove nascevano anche i graffiti e dove la musica funky traslava pian piano nel rap, le gang si sublimavano in crews e invece di uccidersi o menarsi per strada usavano il dancefloor per sfidarsi in battles piuttosto codificate ma pur sempre espressione di carisma e stile originale, estemporaneo e spontaneo, in grande complicità con i dj, altre personalità del mondo notturno che nacquero proprio allora. Lo racconta bene Beat Street, il film del 1984 che contribuì a far conoscere il breaking e un importante spaccato di cultura hip-hop newyorchese anche a chi non viveva nel Bronx e non aveva la minima idea di cosa accadesse laggiù.

Chi dunque nutre un certo scetticismo verso l’inclusione del breaking tra le discipline olimpiche lo fa perché lo ritiene più uno stile di vita, un’espressione di riscatto artistico e culturale di una comunità radicata in un certo tempo e contesto oltre che a lungo discriminata (spesso chi diventava un bravo b-boy o una brava b-girl lo faceva perché non aveva nient’altro e doveva farsi rispettare nel quartiere, in famiglia, tra gli amici, le sfide che avvenivano in pista erano reali) piuttosto che un esercizio valutabile da una giuria secondo regole, stili e passi ben eseguiti. È una questione di autenticità.

Se ti capita di guardare o riguardare le gare (se leggi o ascolti questa newsletter sabato 10 agosto sei ancora in tempo per vedere tutte le competizioni maschili, iniziano alle 16), vedrai due b-girls o due b-boys sfidarsi per un minuto e mezzo a testa su una musica messa sul momento da due dj (quindi chi è in pista non la conosce) e una giuria di nove membri giudicarli sulla base di cinque parametri: vocabolario, originalità, tecnica, esecuzione e musicalità. Per saperne di più su ognuno di questi termini in questo pezzo di Vulture ci sono ottime definizioni, mentre proprio ieri il New York Times ha fatto uno di quei suoi bellissimi servizi interattivi in cui vengono spiegate e mostrate le parti principali di quel vocabolario, ovvero le mosse, gli elementi e i passi principali del breaking. Dagli un’occhiata.

Che sia un momento di rottura rispetto alla tradizione delle Olimpiadi lo dice il nome stesso della disciplina, che sia una rottura efficace secondo me lo può raccontare meglio l’equivoco che sta alla base del suo nome. Un equivoco ancora una volta culturale e di potere. Breakdance, il nome che è passato nella cultura mainstream - persino qui ancora ieri - lo hanno usato i media per rendere questa realtà intellegibile e “vendibile” al grande pubblico. Ma il break da cui il breaking prese il nome, tuttavia, era quella parte delle canzoni dell’epoca che batteva per qualche secondo sulle percussioni prima o dopo i ritornelli (solo musica senza voce), una parte che faceva ballare i ragazzi e le ragazze in pista ma durava sempre troppo poco, una parte che alla fine i grandi dj degli anni Settanta decisero di allungare, replicare e rendere indipendente così che quei ragazzi e quelle ragazze potessero radunarsi in cerchio al centro del dancefloor e sfidarsi, esprimersi, ballare, vivere su quei battiti. Senza nessuno che stesse lì a giudicarli.

Grazie per avermi seguita fin qui oggi. Ci voleva un po’ di leggerezza! Tra due settimane si torna a terra con argomenti prevedo un po’ più pesanti, intanto qui sotto trovi alcuni viaggi da fare questo mese per andare alla scoperta degli Stati Uniti.


È tempo di esplorare!

Che tu sia in vacanza o a casa, perché non usare il mese di agosto per recuperare un po’ di America?

Ti aspetto ovunque vorrai, anche qui tra due settimane. Grazie e buona estate!

Sogni Americani
Sogni Americani
Gli Stati Uniti raccontati dalle persone, dai luoghi, dai libri.
Dai risvegli.
La newsletter quindicinale di Marta Ciccolari Micaldi, aka La McMusa.