L’insonnia mi prendeva dalle due e mezza alle cinque del mattino: ero negli Stati Uniti già da qualche settimana, ma quell’intervallo notturno da dedicare alla luna, alle stelle e ai loro sinistri riflessi sembrava non volersi dissipare mai. La mia camera da letto era bianca: bianche le pareti, bianche le veneziane, bianco il pavimento, bianco l’armadio a muro, le lenzuola, il piumone, i cuscini. C’era uno scheletro di bisonte attaccato a una parete ed era anch’esso bianco. Bianco ossa. Perfettamente lucido e immobile, a ricordo di un’era rinchiusa a forza nel suo passato senza neanche tanti sensi di colpa: il suo grazioso posto sul muro ben valeva i dollari spesi per affidarglielo e mostrarlo poi agli ospiti. Neanche io, ospite a mia volta di quella stanza e del suo scheletro, avevo sensi di colpa; non, almeno, così importanti da tenermi sveglia la notte e mandare a monte qualsiasi piano per il giorno successivo. A farmi aprire gli occhi, sempre alla stessa ora, sempre nella stessa posizione, era piuttosto la luce: la luce - celebre, mitica, naturalmente bianca - di Los Angeles.
Se è vero che a renderla famosa sono stati e ancora sono i suoi raggi diurni, è altrettanto vero che anche alle due e mezza di notte Los Angeles brilla. Se c’è la luna piena, è un riverbero che passa attraverso le veneziane. Se non c’è la luna piena ma ci sono le stelle, è il riflettore di un film che stanno girando nel vicinato. Se non si vedono né la luna né le stelle, è il bagliore di uno dei tanti incendi che lambiscono i suoi confini. Se non ci sono né la luna né le stelle né le fiamme, sono i fari di un’auto che scende veloce da Mulholland Drive e contende la strada ai coyote. Gliela contende finché non va a schiantarsi sul viale del tramonto e dalle colline nasce una nuova alba mentre il coyote ulula il suo trionfo da Sunset Boulevard su verso la scritta più menzognera e ammaliatrice del mondo: Hollywood.
L’insonnia mi prendeva, allora, perché Los Angeles faceva paura.
Qualsiasi luce provenisse dalla mia finestra era una luce di minaccia, di inquietudine, di perturbante mistero: i sentimenti tipici della notte, che qui però sono tipici anche di giorno perché dove c’è così tanta luce, altrettanto lunghe, profonde e nere sono anche le ombre. Vivono e respirano, tutte sotto lo stesso sole, come fanno sotto la stessa luna. «La gente ha paura di buttarsi nel traffico delle autostrade di Los Angeles» recitava l’incipit di uno dei miei romanzi preferiti, Meno di zero di Bret Easton Ellis. Io non mi ci ero ancora buttata in quel traffico ma la paura l’avevo già: l’aveva capito il mio inconscio ben prima di quanto non avesse potuto fare la mia coscienza vigile e sveglia, allora, la coscienza diurna che dopo cinque anni dalla prima volta in città mi aveva spinta a tornare per trascorrervi sei settimane e capire come si potesse vivere nella città più americana e ambigua d’America.
Impauriti e soli, avrei scoperto. Scintillanti e inquieti, bellissimi e nudi, potenti e inermi. Limpidi e inquinati. Come il suo cielo, il suo oceano, le sue colline.
Mi arresi dunque all’insonnia e imparai a non chiedere alla notte più di quanto lei e la sua città fossero disposte a concedermi. Fu quando infine mi gettai nel traffico delle strade di Los Angeles al volante della mia macchina, una mattina di settembre del 2018, che mi si rivelò chiara la verità: a me quella paura piaceva. Agli altri intorno a me quella paura piaceva. E se per gustarla di giorno dovevamo provarla anche di notte, be’ allora che fosse la benvenuta.
L’umanità non avrebbe bisogno della fantascienza se tutti capissero Los Angeles: anima adolescente e impertinente di un Paese che smania dalla voglia di crescere e oltrepassare ogni limite, la Città degli Angeli cambia le dimensioni della realtà, ignora l’ordine del mondo, polverizza le abitudini che valgono altrove, si nutre là dove gli altri scartano, rovescia il senso del bello insieme a quello del pudore e della misura. E fa tutto questo con la complicità degli elementi, a volte perché le sono stati donati dal destino, altre perché a quello stesso destino li ha contesi e ha finito per abusarne: la luce che sposa i riflessi del deserto con quelli dell’oceano, le palme che rendono inutili i grattacieli pur essendo anch’esse artificiali e importate, quei chilometri di spiaggia gialla e immensa che avvicinano l’orizzonte alla portata di un abbraccio, le onde puntuali del Pacifico, la baia dove finisce la corrente sottomarina e comincia la spinta tellurica che crea le colline e i terremoti, i canyon che quelle colline le rendono interessanti quando non del tutto ardenti, le piscine che quelle colline le rendono anche vergognosamente ricche, l’acqua che qui non c’era e poi è stata portata e consumata in quelle piscine, in quegli acquedotti, per quella ricchezza.
Ambientazione perfetta delle storie più ambiziose del nostro mondo, insaziabile fabbrica di sogni nati per essere irrealizzabili, fatiscente discarica dei fallimenti e della mediocrità del Paese di cui è bambina, non c’è angolo di Los Angeles che sia propriamente sconosciuto, non c’è volto di Los Angeles che non sia già stato inquadrato, non c’è storia di Los Angeles che non sia già stata partorita, allattata, abortita. Ed è in questo incontro di assi cartesiani del già visto, del ribelle e dell’ideale che sta la sua essenza fantascientifica, un’essenza che si sublima - lo sa chiunque ci abbia messo piede, senza magari rendersene subito conto - nell’assenza di contatto tra le persone. Nell’impossibilità di toccare la vita e il corpo, quello vero, degli altri. Con i suoi undici milioni di abitanti, molti e molte delle quali belli come solo gli alieni possono esserlo, Los Angeles è la città della solitudine.
Grazie per avermi seguita fin qui oggi. Quello che hai letto o ascoltato è l’inizio dell’ottavo capitolo del mio libro, Sparire qui, che ieri ha raggiunto il suo primo mese di vita e oggi ho voluto celebrare in questa newsletter in maniera più intima di altre volte. Sì, perché in questo periodo il capitolo su Los Angeles sta risuonando dentro di me molto più di altri e credo possa rappresentare molto bene sia la mia relazione con gli Stati Uniti in generale sia il mio modo di raccontarli.
Sono molto grata alla giornalista e amica Francesca Pellas che qualche sera fa alla Casa del Manzoni a Milano, in occasione di una delle più belle presentazioni del mio libro, mi ha sorpresa chiedendomi di leggere due paragrafi di questo capitolo che lei stessa aveva selezionato. Li puoi trovare nel video qui sotto, insieme alle altre sue splendide domande e alla nostra profonda chiacchierata, che spero possa piacerti tanto quanto è piaciuta a noi.
Ti piacerebbe leggere o regalare il libro? Lo trovi nella tua libreria di fiducia oppure sugli store online Amazon, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
Se vuoi leggere un parere lucido e critico che non sia il mio, ti suggerisco questa recensione di Debora Lambruschini, che credo abbia inquadrato perfettamente una cosa: il genere letterario a cui appartiene Sparire qui e i propositi che si è prefissato come opera sugli Stati Uniti.
E infine: ci vediamo? Nelle prossime settimane sarò in tour in diverse località e cittadine d’Italia per presentare al pubblico Sparire qui: trovi tutte le date in questo link, che ti consiglio di conservare. Spero davvero di vederti, come è già successo con tante persone in questo mese appena finito. Un mese pieno e vivacissimo, in cui ho avuto la fortuna di visitare molte città e di essere protagonista di presentazioni davvero intense e partecipate. È vero che ho scritto un libro su un paese lontano, ma è anche vero che una delle cose più belle che questo libro mi sta regalando è l’occasione di frequentare molto di più e molto meglio il mio!
A presto allora: che sia tra le pagine del libro, sui social o dal vivo. Ciao 🤗