Sogni Americani
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Una notte allo Shelter Motel
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Una notte allo Shelter Motel

Lo spazio e il tempo in cui mondi diversi finalmente si toccano

Non è il migliore in cui sia mai stata, ma di certo neanche il peggiore. Alto sopra l’uscita della superstrada poco oltre downtown e grigio nei nuvoloni di un pomeriggio di ottobre, al mio arrivo non mi colpisce né per le dimensioni né per il colore: quello che non mi torna è il parcheggio. Sono abituata ai motel e agli hotel americani di catena come questo: arredati per lo più allo stesso modo, cambiano i dettagli, i colori e le offerte, variano senz’altro la pulizia e l’attenzione al cliente, ma tutti replicano all’incirca le stesse caratteristiche. Di catena in catena. I letti sono molto grandi e molto alti, le prese elettriche sono sulla base delle lampade, a colazione c’è la macchinetta per cucinare i waffle, la palestra ha un solo tapis roulant funzionante, i rubinetti della doccia sono controintuitivi, sul letto ci sono almeno quattro cuscini e a terra - il più delle volte - la moquette. I parcheggi dei motel e degli hotel americani sono vuoti di giorno, fin verso le 18.30, e si riempiono dopo il tramonto, per diventare poi decisamente affollati dopo le 21. Chi dorme qui ha ritmi e orari che seguono consuetudini piuttosto diffuse in tutto il paese: on the road o al lavoro di giorno, a letto subito dopo cena.

Quando arrivo al Comfort Inn di Denver sono circa le 16.30 e il parcheggio, però, è stranamente affollato. Non solo non si trova uno spazio che sia uno dove lasciare il van, ma non si trovano neanche tracce di quella normalità media degli hotel a cui sono abituata: dentro e fuori dalla hall c’è un gran via vai, escono ed entrano molte donne con bambini piccoli, una buona parte di queste persone è afroamericana, alcuni operai ispanici si danno da fare per ristrutturare un’ala della parte esterna dell’hotel, a volte uomini soli escono dalle macchine parcheggiate per raggiungere le donne e i bambini all’interno, quasi tutti portano con sé buste di plastica molto grandi e molto piene. Seguo i loro movimenti invece di badare ai nostri (sono con i Book Riders, è il penultimo giorno di viaggio, siamo stanchi e un posto in questo parcheggio adesso è più necessario che mai) e mi ritrovo ad andare con gli occhi ai luoghi dove so già che troverò altri elementi dissonanti eppure improvvisamente coerenti: gli interni delle auto da cui escono questi uomini. Li guardo, per quanto riesco, li scruto, per quanto il mio senso della privacy lo permette, e ovviamente li vedo pieni fino a scoppiare, li vedo intimi fino scoppiare. Qualcuno dorme in quelle auto, qualcuno ci vive lì dentro.

È da quando sono piccola che amo arredare le camere degli alberghi dove mi capita di dormire: non importa che io ci stia una notte oppure quindici, ogni volta cerco di disfare un po’ di bagaglio e di disporlo in modo da sentire mio lo spazio che mi circonda. Non è che mi manca casa mia; è che - al contrario - io negli alberghi mi sento tanto a mio agio da considerarmi a casa. Capita anche qui, al Comfort Inn di Denver, dove di notti devo trascorrerne ben tre e dove in valigia non mi resta altro che biancheria sporca: dopo aver finalmente trovato un parcheggio, aver fatto un lento check in, aver preso possesso della stanza, aver notato l’accurata pulizia degli ambienti e aver selezionato i pochi indumenti non macchiati che mi restano da indossare, comincio a sistemare le mie cose in bagno, poi sul comodino, poi sulla scrivania. Lo faccio per abitudine, eppure anche in questo caso qualcosa non torna, qualcosa è diverso dal solito: non è un sentimento che riconosco subito, mi ci vuole qualche ora e almeno un paio di altri incontri per metterlo a fuoco. Il primo avviene sull’ascensore, con una giovanissima mamma nera in pigiama con tre bimbi al seguito e un carretto pieno di provviste di prima necessità: latte, pane, cereali, verdura, merendine. L’altro è con una donna bianca incinta, seduta al tavolo della colazione con altre giovani neomamme nere e alcuni uomini che sembrano essere più fratelli che compagni, più amici che mariti: condividono sofferenza e povertà più che problemi di coppia. E allora capisco: queste persone vivono in questo albergo, queste persone sono davvero a casa qui dentro.

Un’immagine dell’hotel tratta dall’articolo di NewsBreak Denver.

Ed è proprio così, scopro alla fine: questo motel è una casa per chi una casa non ce l’ha. La Città di Denver e, in particolare, il Denver City Council insieme alla Colorado Coalition for the Homeless ha comprato una manciata di strutture alberghiere della città o ha affittato un certo numero di camere in strutture di proprietà altrui per destinarle a famiglie di persone senzatetto in particolari condizioni di difficoltà, tanto fisica quanto economica o relazionale. Il progetto è cominciato a gennaio 2018 e si è intensificato durante il primo anno di pandemia, è stato in parte finanziato con i soldi federali dell’American Rescue Plan Act ed è specificamente riservato alle persone senzatetto rimaste fuori dai normali shelters (centri di accoglienza) già predisposti in città. Spesso, scopro, per risultare idonei al programma di ospitalità bisogna avere dei minori a carico o delle disabilità. E questo spiega come mai ci sono così tante mamme, così tante persone non bianche (gli effetti del razzismo si intrecciano a quelli della povertà, come sappiamo), così tanti uomini disoccupati.

Scopro anche - e questo mi fa riflettere - la lista di caratteristiche che devono possedere gli hotel per essere idonei al programma: ovviamente devono rispondere a certe norme di confort e igiene, ma devono anche essere drug-free e violence-free, devono provvedere alla prima colazione e devono formare i propri dipendenti attraverso un cosiddetto sensitivity training, una formazione volta a sviluppare un certo tipo di sensibilità e di attenzione nelle relazioni con gli altri. Infine, devono porre le condizioni affinché si crei una naturale convivenza tra ospiti del programma e turisti, visto che condivideranno spazi, ritmi, colazioni e ovviamente parcheggi. Ovviamente sguardi.

Due mondi lontani finalmente si toccano, allora, e in quella vicinanza trovano confronto e crescita: se per i primi è la sicurezza e lo stimolo di una camera calda e di una vita (più) stabile, per i secondi è la messa a nudo del proprio privilegio. All’inizio suona come qualcosa di strano, come qualcosa che non torna (ricordi?), ma alla fine del soggiorno ha il sapore di una preziosa, matura presa di coscienza. Una volta uscite dall’ascensore, per me arredare la camera d’albergo è un vezzo, per la ragazza che sta esattamente sotto di me ed è entrata ora in camera con i tre bimbi e le provviste da sistemare è un necessità.

Grazie per avermi letta fin qui oggi, ci sentiamo tra due sabati!

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