Sono le 21 di venerdì sera, ora del Colorado. Mi trovo in un delizioso lodge di montagna di Estes Park, fuori ci sono 10 gradi, un cielo profondo e stellato, e diversi cervi giganti che vagano placidi per la cittadina. Siamo a 2.300 metri di altitudine e uso il plurale perché, per quanto ora io sia da sola nella mia camera, mi trovo in Colorado da circa due settimane in compagnia dei Book Riders, i viaggiatori e le viaggiatrici che vengono con me a esplorare gli Stati Uniti dall’Italia sulle strade della letteratura americana. E, in questo caso, sulle strade - lunghe, spettacolari ed emozionanti - del Colorado Roots (dai un’occhiata, sono incredibili, soprattutto in questo periodo dell’anno).
Una di queste strade ha un nome indimenticabile, Million Dollar Highway: si snoda sulle San Juan Mountains nel centro dello stato, fiancheggia un canyon profondissimo di rocce sanguigne e appuntite, e porta questo nome in virtù della cifra enorme che ci volle per costruirla, ma anche - simbolicamente - del prezzo che dovremmo pagare per godere della vista della natura sublime che questa strada attraversa, ma anche - non è finita, infatti - del valore reale dell’oro che è rimasto incastrato tra queste montagne. Qui, infatti, fino ad appena qualche decennio fa, le vecchie miniere di fine Ottocento erano ancora attive e l’estrazione dell’oro era la principale ragione per cui le persone si inerpicavano su per la Million Dollar Highway da Ouray a Silverton: 25 miglia di meraviglia e terrore, che tuttavia attirano migliaia di persone ancora oggi che le miniere sono chiuse e che il colore dell’oro sembra caratterizzare “soltanto” gli alberi in autunno. Come mai?
Quando Silverton fu fondata, nel 1874, dopo una trattativa ovviamente impari con la popolazione nativa degli Ute che si risolse in una coloniale compravendita del territorio nota con il nome di Brunot Agreement, alcuni imprenditori del tempo videro in quelle montagne una possibilità di ricchezza, come spesso accadeva in queste zone del West così cariche di promesse e ostinazioni romantiche: iniziarono a scavare e trovarono l’argento. Continuarono a scavare e nel 1882 trovarono l’oro, richiamando così attorno alle miniere una grande quantità di cercatori, pionieri, uomini in cerca di lavoro, ingegneri, banditi, baristi e prostitute. Silverton crebbe, quindi, come quelle tipiche cittadine western del nostro immaginario, lungo una Main Street larga e drittissima, con tre parallele polverose dove costruire semplici case di legno, alcune chiese, almeno un paio di saloon, un albergo con l’immancabile pianoforte a coda ed eleganti tappezzerie, una ferrovia che scendeva verso gli altipiani meridionali e poi risaliva in città una volta alla settimana ma forse anche meno, una piccola prigione con le pareti di legno e un’altrettanto piccola grata per far entrare l’aria, l’ufficio postale, l’abbeveratoio per i cavalli, i recinti per il bestiame, una minuscola scuola e ovviamente l’ufficio dello sceriffo.
Tutt’intorno, quelle montagne piene d’oro, le cui pendici arrivavano proprio a filo della Main Street e che d’inverno si caricavano di neve bloccando ogni collegamento con le altre cittadine già di per sé molto distanti, così come il lavoro nelle miniere. Miniere che di conseguenza, a causa delle condizioni del territorio e di quelle del mercato, per oltre un secolo finirono per essere croce e delizia di Silverton, la arricchirono e la condannarono a intermittenza finché l’ultima crisi, quella del 1992, non ne decretò il definitivo arresto: l’epoca dell’oro era finita, i vecchi imprenditori erano stati disillusi, un terzo della popolazione perse il lavoro, non si fece in tempo ad asfaltare le strade secondarie che la Main Street stessa divenne deserta. Colorata, elegantemente western, ma deserta e più che mai isolata. Chiusero i saloon, chiusero i bordelli, chiusero le prigioni, chiusero le redazioni dei giornali e la stazione della ferrovia. Sulla Million Dollar Highway continuarono a esplodere i colori delle stagioni e qualche occasionale copertone dei camion che, lungo tutto quel secolo, avevano preso il posto dei cavalli e dei carri.
Eppure quella strada, una delle più belle e pericolose d’America (così viene definita oggi), davvero deserta non divenne mai. E quella ferrovia che va da Silverton giù fino a Durango davvero ferma non rimase mai. Né le porte dei saloon, quelle degli alberghi e dei general store, persino quella della prigione non rimasero chiuse a lungo: le strade secondare non vennero mai asfaltate, le insegne e le vetrate dei locali non vennero mai rinnovate ma sul finire del Novecento Silverton scoprì un altro tipo di oro e, così com’era, decise investire su di esso la promessa di una seconda, più fortunata esistenza: il turismo. Lo sci e le escursioni stagionali, da un lato; il patrimonio storico mantenuto pressoché intatto, dall’altro.
Oggi andare a Silverton è un’esperienza incantevole: al contrario di altri piccoli paesini western degli Stati Uniti, non è (ancora) diventata un set hollywoodiano o un omaggio posticcio e non è (ancora) stata intrappolata nell’operazione “bomboniera per ricchi” come è accaduto invece alla vicina Telluride. Oggi andare a Silverton significa sfidare la montagna come un tempo, ascoltare il rumore del vento lungo la Main Street, entrare e uscire da nuvoloni di polvere, sperimentare la distanza dalle cose del mondo, ingegnarsi per impiegare il tempo e alla fine arrendersi al suo volere. Che sia il tempo dell’orologio o quello del cielo.
Grazie per avermi accompagnata fin sulla cima di queste montagne oggi. Raccontarti di Silverton mi ha fatto rivivere una delle tappe più belle del tour dei Book Riders e, se desideri vedere altri video e foto, li trovi qui. Ci sentiamo, se vorrai, tra un paio di sabati, sempre dagli Stati Uniti ma in tutt’altra zona. A presto!
Lo scorso mercoledì sono stata ospite della rubrica America News di RaiNews24. Ero in diretta dalla Union Station di Denver e ho dato qualche breve suggestione sulla città, l’intero Colorado e il motivo per cui ho scelto proprio questi luoghi per mostrare al mio pubblico un certo tipo di America. Se ti va, puoi rivedere l’intervista qui: è un link che porta al mio canale Telegram, dove in questi giorni sto condividendo in maniera intima e vivace il tour Colorado Roots e diverse altre cose (tra cui, appunto, il video dell’intervista). Telegram, maneggiato con naturalezza e personalità, mi ha fatto tornare la voglia di usare i social come reale mezzo di comunicazione e racconto, dopo le recenti delusioni dovute ai cambiamenti di Instagram: magari fa lo stesso effetto anche a te, dagli un’occhiata.
Un altro canale che è sempre più collaudato e soddisfacente è la mia membership. Questo mese ho condiviso con le persone abbonate al menù Corn Flakes una delle letture più roboanti fatte qui in Colorado: riguarda il potentissimo libro qui sotto (un testo capitale) e la puoi rivivere da qui.
Ah, a proposito di delusioni di Instagram: se non ci fossero le mie collaboratrici Valeria Sesia e Ginevra Candidi (supportate economicamente proprio dalla membership), sul mio profilo Instagram non esisterebbero reel deliziosi come questo (che racconta proprio i luoghi americani esplorati nella membership) e contenuti sempre più dinamici e completi. Questo è un piccolo circolo virtuoso che crea cose belle (anzi, puramente gustose) e reclama a gran voce la tua presenza 😉