Sogni Americani
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Dentro gli ospedali di Houston
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Dentro gli ospedali di Houston

Un reportage esclusivo dal Texas Medical Center

Nel 1969 a Houston tirava un’aria piuttosto frizzantina. Immagina: a luglio la NASA avrebbe lanciato per la prima volta 3 uomini sulla luna e qualche mese prima, ad appena una decina di miglia più a nord, un cardiochirurgo avrebbe impiantato il primo cuore artificiale nel petto di un uomo. Dando così origine a una leggendaria faida tra chirurghi durata decenni e, contemporaneamente, allo sviluppo di due dei centri medici più importanti del Texas Medical Center, a sua volta il centro di medicina più grande del mondo.

È proprio dal Texas Medical Center che apprendo per la prima volta l’esistenza di questa faida, una di quelle storie che ha fatto la fama della città e della medicina mondiale ma che forse, oltre i confini della città e della medicina, ha finito per rimanere offuscata dalla scia galattica di quell’altra storia, l'allunaggio dell’Apollo 11. Eppure non è meno incredibile o coinvolgente. Andò così: a partire dagli anni Cinquanta due chirurghi - il Dr. Michael E. DeBakey e il Dr. Denton A. Cooley - cominciarono a lavorare fianco a fianco per sviluppare e perfezionare i trapianti di cuore. Le cose andavano bene, facevano grandi progressi e acquisivano sempre maggior prestigio, finché il secondo, il dottor Cooley, non decise di lasciare la squadra diretta dal primo, il dottor DeBakey, al Methodist e andò a lavorare al St. Luke’s Hospital, poche centinaia di metri più lontano. Il 4 aprile, avendo ricevuto in ospedale un uomo che aveva bisogno di un trapianto di cuore ma non avendo a disposizione nessun cuore umano, il dottor Cooley andò nel laboratorio del suo ex partner, il dottor DeBakey, sequestrò da qui un cuore artificiale e lo impiantò al paziente, salvandogli così la vita per quasi altri 3 anni e diventando il primo chirurgo al mondo a compiere un trapianto del genere.

I due non si parlarono più per 40 anni ma l’ambizione che caratterizzava entrambi continuò in qualche modo a competere, anche se a distanza: è vero, infatti, che si era rovinata un’amicizia ma è altrettanto vero che il Methodist e il St. Luke’s Hospital diventarono negli anni due dei migliori centri cardiologici al mondo e che entrambi oggi danno lustro all’intero Texas Medical Center, una struttura ospedaliera e medica come non ce n’è in nessun’altra parte del mondo. Sia per dimensioni (è un intero quartiere di Houston) che per quantità (contiene più di 60 istituzioni tra ospedali, ambulatori, cliniche, centri di ricerca e di formazione medica) che per prestigio, come potrai ben immaginare (e come mostra anche questo video, già molto datato, ma consigliato per assaggiarne l’aria).

A raccontarmi la storia del dottor DeBakey e del suo illustre rivale è Francesca Taraballi, ricercatrice del Methodist e direttrice del laboratorio a lei intitolato e dedicato alla Rigenerazione Muscoloscheletrica nel quale mi accoglie per mostrarmi come funzionano le cose in questo centro di eccellenza mondiale, eccellenza a cui lei e gli altri ricercatori e ricercatrici contribuiscono attivamente e quotidianamente. Un’esperienza dalla quale esco molto impressionata. Ma cominciamo dall’inizio.

Faccio l’errore da principiante di voler arrivare al Texas Medical Center a piedi, dopo aver lasciato la macchina poco distante (che nelle distanze del Texas significa a mezz’ora di cammino) ma le proporzioni di questo complesso medico sono colossali e non sono state pensate per i pedoni: qui si arriva in macchina (o in ambulanza, ma questo è un altro discorso) e si usano i parcheggi a pagamento che invece - loro sì - hanno dimensioni proporzionate al resto. Così come i costi: la tariffa flat (ovvero dalle 7 ore in su) è di 15 dollari, dollari che - scopro da Francesca poco dopo - vengono utilizzati come fondi per l’acceleratore di start up del Texas Medical Center, un polo di innovazione medicale che è secondo solo a quello di Boston e a quello di San Diego. Entriamo al Methodist e l’ampio atrio è come quello di un grande albergo: ci sono delle poltrone, delle statue, una fontana, un negozio di souvenir (!), diverse opere d’arte alle pareti, le incisioni dei numerosi donatori (su questo torno tra poco), un’intera zona ristorazione con i tavolini fuori e due robot di nome Watson e Holmes che si occupano della sicurezza e gironzolano per tutto il piano.

C’è una cosa che è importante che io capisca subito: questa struttura unisce ricerca e clinica, e tale unione è uno dei suoi punti di forza. Ciò che viene fatto nella ricerca, infatti, ha un’applicazione pressoché immediata in sala operatoria e il fatto che tutti i laboratori del Methodist siano adiacenti alla zona ospedale rende questa applicazione veloce, accessibile e comoda. Mentre saliamo in ascensore al suo laboratorio, Francesca chiarisce il concetto: uno dei vantaggi di questo posto è che in uno stesso edificio hai tutto, dagli animali su cui si fanno gli esperimenti ai contenitori di stoccaggio delle cellule ai materiali con cui si costruiscono le nanotecnologie, fino alla sala operatoria, dove tutte queste cose vengono immediatamente messe all’opera. Era già capitato durante la pandemia: quello del Methodist fu uno dei pochi centri che non venne chiuso, proprio a dimostrazione del fatto che la ricerca non deve essere seconda a nessuno. E infatti lo stesso laboratorio di Francesca contribuì, tra le altre cose, alla lavorazione dei vaccini a mRNA.

Normalmente impegnato nella creazione di materiale innovativo per l’ortopedia e nella nanotecnologia, il laboratorio Taraballi è composto da ricercatori e ricercatrici giovanissimi, molti dei quali provenienti dall’Italia: “Siamo tra i migliori al mondo, ma siamo anche costretti a non lavorare in Italia”, mi dice Francesca, rispondendo alla mia curiosità sul perché stavo stringendo la mano a così tanti miei connazionali. Una cosa che, da un lato, mi riempiva d’orgoglio e, dall’altro, comprensibilmente, mi amareggiava: avevo la netta sensazione di essere in compagnia di persone, Francesca in primis, che un domani potrebbero vincere il Nobel. Peccato, pensavo, che debbano arrivarci così lontane da casa!

Il fatto di concorrere per vincere delle fellowship o dei grant o, in generale, dei fondi è una pratica comune per questi centri di ricerca: i soldi per mantenere i laboratori e il personale che vi lavora sono spesso pubblici (li stanzia il Dipartimento della Difesa, ad esempio, o naturalmente quello della Salute), ma vengono assegnati a direttori e direttrici secondo meriti, concorsi e valore dei progetti presentati. Una forma di concorrenza, quindi, che alimenta l’eccellenza e senz’altro anche le rivalità, come era già accaduto - se ci pensi bene - ai predecessori DeBakey e Cooley.

Una placca commemorativa proprio di DeBakey è presente qualche piano sotto quello del laboratorio Taraballi, il piano dedicato al MITIE. Aperto nel 2010, il MITIE è un istituto esclusivo per la tecnologia, l’innovazione e la formazione che fa da intermediario tra le industrie tecnologiche e il personale clinico: se Siemens, ad esempio, costruisce un nuovo macchinario per la risonanza magnetica, qui possono venire i medici di tutto il mondo a provarlo, a testarlo, a interfacciarsi con l’azienda, a imparare le sue caratteristiche, prima che il macchinario stesso venga portato in ospedale o in sala operatoria e usato. Alcune dimostrazioni vengono fatte in 3D online e raggiungono quindi equipe internazionali, altre usano più comunemente cadaveri, animali e manichini e danno il meglio di sé in loco. Ne vedo alcuni, di questi manichini, che sono dei capolavori di tecnologia: possono piangere, agitarsi, vomitare e gridare come farebbe un vero essere umano.

Curiosamente, di esseri umani nelle condizioni del manichino non ne vedo nessuno. E questa è la prima cosa che noto quando Francesca mi porta nella zona ospedaliera del Methodist e, in particolare, nel reparto con cui lei collabora più attivamente: quello di Ortopedia e Medicina Sportiva. Attraversando nuovamente la hall dell’ospedale e i tantissimi corridoi che collegano un’area all’altra, questa volta noto: banche e persino una gioielleria, mostre di opere d’arte alle pareti, scale mobili, sale d’attesa sempre stile albergo, ristoranti e caffetterie in quantità spropositata, personale medico di ogni grado e qualifica, parenti o pazienti giornalieri che vanno a fare visite varie e pagano il famoso parcheggio, gente che sale e scende sugli enormi ascensori.

E nessun paziente allettato o in barella. Zero. I malati nei reparti dell’ospedale ci sono ma non si vedono. Sono al riparo dietro pesanti porte che restano rigorosamente chiuse, eccetto per il personale medico. Una divisione che mi colpisce molto: non si vedono neanche letti vuoti, macchinari e attrezzi vari, medicine o sedie a rotelle; non si sente neanche quel tipico odore da ospedale che hai sicuramente presente. E non finisce qui: c’è un altro assetto che è decisamente diverso dalle nostre strutture: quello all’ingresso. L’accettazione è una vera e propria reception, dietro la quale c’è un’area raccolta ma grande - con la moquette a terra, gli arredi di legno ed eleganti lampade sui tavoli - dove ci si reca singolarmente per pagare la prestazione ricevuta. O, probabilmente, ancora da ricevere. E questo non vale solo per i grandi atleti degli Astros o dello Houston Ballet o del Rodeo di cui il Methodist è il centro di cure ufficiale. Vale per tutti e tutte!

E infatti, concordiamo io e Francesca, la questione delle assicurazioni sanitarie è un discorso che dovremmo affrontare a parte. Di certo i soldi che circolano dentro e fuori questi ospedali sono moltissimi, nonostante gli ospedali stessi siano quasi tutti non profit: la maggior parte delle strutture e dei centri che compongono il Texas Medical Center, infatti, sono stati costruiti grazie ai fondi versati da donatori privati i cui nomi stanno nelle pareti dell’atrio, come scrivevo prima, oppure proprio in cima agli edifici che hanno reso possibili. Un singolo donatore, ad esempio, ha donato 101 milioni di dollari e uno dei grattacieli che oggi si vedono nello skyline del complesso ospedaliero porta la sua firma! Francesca mi racconta tutto questo mentre percorriamo alcuni dei tunnel esterni che collegano tutti questi edifici, altra grande eccellenza del posto: è tutto connesso, anche gli ospedali diversi tra loro. È certamente una misura dovuta al caldo terribile che fa per metà dell’anno, ma è anche una strategia per rendere tutto ancora una volta più accessibile, comodo e vicino.

Mi torna allora alla mente, allora, una frase che avevo appena ascoltato durante la presentazione del MITIE: a Houston le tre grandi aree di specializzazione - l’energia (il cosiddetto oil&gas), la ricerca medica e quella spaziale - funzionano tutte secondo lo stesso principio: pumps and pipes, pompe (il cuore, ad esempio, per tornare alla nostra storia di apertura) e tubi. Una cosa che funziona in un campo può funzionare anche nell’altro: stare vicini e comunicare, allora, non è un optional bensì, appunto, una strategia di progresso. Dove cresce uno, può crescere anche l’altro. E mentre esco io stessa da uno di quei tunnel enormi e mi perdo di nuovo sotto i giganteschi edifici della medicina, penso ai due ambiziosi cardiochirurghi nel lontano 1969 e mi dico: sarebbe stato meglio se fossero rimasti amici, ma forse il loro è un raro esempio di concorrenza contigua che migliora il lavoro. La loro eredità, qui, parla da sola.

Grazie per avermi letta o ascoltata fin qui oggi. È stata lunga! Un grazie speciale va a Francesca Taraballi per avermi dedicato il suo tempo e avermi aperto le porte del suo laboratorio. Le storie da Houston non finiscono certo qui, però! Ti do appuntamento per prima cosa su Instagram: troverai un reportage di stories proprio dai posti che ti ho appena raccontato. E poi dai un’occhiata qui sotto!


Houston è una città incredibile: brutta ma felice, che non fa tante smancerie e pensa alle cose serie, diversa dal classico immaginario texano ma anima e motore dello stato. Ne ho parlato parecchio in questo mese e continuerò a farlo anche nei prossimi giorni, ma in modo nuovo. Questo:

Martedì 4 aprile alle ore 21 ci sarà una diretta gratuita e aperta a tuttə su YouTube: puoi lasciare la tua mail qui, ti arriverà un link qualche ora prima. Al termine della diretta ci sarà anche una sorpresa. Non mancare!


Per tutto marzo il Texas è stato il grande protagonista anche della membership! Ecco in che modo:

  • La terza puntata di Miglia, il podcast di esplorazione e racconto on the road degli Stati Uniti, ha fatto tappa a Galveston.. che posto assurdo e stranissimo! Ascoltare per credere.

  • La newsletter Mac&Cheese a cura di Valeria Sesia ci ha presentato il lavoro giornalistico di Caroline Collins, volto di Fox 26 Houston che ha un modo molto travolgente di raccontare le proprie giornate in redazione.

  • E last but absolutely not least, il terzo appuntamento di LIT - il bookclub della McMusa ci ha portato tra le pagine di Dio salvi il Texas, il libro di Lawrence Wright che ci ha fatto viaggiare, discutere, imparare moltissimo!

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La membership sta per compiere due anni! Arriveranno resoconti e offerte speciali, ma ancora una volta lasciami ringraziare chi ha deciso di iscriversi e di dare un supporto concreto al mio lavoro: thank you so much, se sono riuscita a stare a Los Angeles 10 giorni e a Houston quasi un mese è stato grazie alla scelta di queste persone. E tutti questi contenuti ne sono la dimostrazione!

Ci sentiamo tra due sabati, allora! Ciao ❤️

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La newsletter quindicinale di Marta Ciccolari Micaldi, aka La McMusa.