Ciao! Ti scrivo da una giostra che gira: come probabilmente sai già o ti ricordi dall’ultima newsletter (non ci sentiamo da allora, erano i primi di agosto), il 29 dello scorso mese è uscito Sparire qui, il mio primo libro. Concedimi quindi di cominciare questa nuova stagione di newsletter con un minuto di gloria, solo uno: sono molto contenta! Il mio memoir ha esordito al 15esimo posto in classifica e ha cominciato a circolare tra le mani di lettori e lettrici raccogliendo tanti pareri positivi (se ti va, leggi solo questo, l’ho trovato speciale).
Una mattina sono stata ospite di Radio Deejay, da Linus e Nicola, ed è stato proprio bello: non solo professionalmente ma soprattutto a livello umano. Ho sentito di aver portato la letteratura nella casa dove dovrebbe stare sempre.
Ho inaugurato le presentazioni del libro con una serata molto calorosa al Circolo dei Lettori di Torino insieme a Francesco Costa: giocavo in casa, è vero, ma questo ha reso tutto decisamente più emozionante e partecipato. Se vuoi puoi rivivere la serata con noi da qui, è di certo un’ottima introduzione al libro. Così come lo è anche questo estratto: Linkiesta ha pubblicato un brano tratto da uno dei capitoli secondo me migliori, quello sui cowboy texani di Bandera. Prova a indovinare da quale autore mi sono fatta accompagnare!
Le presentazioni continueranno per tutto l’autunno, il calendario lo trovi qui: settembre è ormai al completo ma ottobre, novembre e dicembre sono in via di definizione e alcune date sono già state fissate. Conserva questo link, così puoi reperire tutti gli aggiornamenti man mano che li inserisco.
Last but not least: nel caso volessi Sparire qui anche tu con me, dove trovi il libro? Nella tua libreria di fiducia oppure sugli store online Amazon, Ibs, Feltrinelli, Mondadori.
E adesso ti racconto una storia, una storia che è nata proprio durante una delle presentazioni del libro. Qualche sera fa a Bologna, infatti, mentre io e il mio interlocutore parlavamo degli aspetti più brutali della società statunitense, aspetti che io ho cercato di inserire nella mia narrazione facendomi aiutare da diverse voci letterarie, è stato inevitabile fare il nome di John Steinbeck, lo scrittore che, meglio di molti altri, soprattutto nel suo tempo, raccontò la povertà degli Stati Uniti dopo la Grande Depressione. Una povertà che - ed era questo il nocciolo della discussione durante la presentazione bolognese - sembra persistere ancora oggi, seppure con proporzioni e declinazioni differenti.
È stato in quel momento che mi è venuta in mente questa immagine.
L’avevo vista solo qualche giorno prima nelle sale della mostra dedicata alla fotografa Dorothea Lange - coetanea e in qualche modo collega di John Steinbeck nella rappresentazione degli ultimi di quegli anni - allestita negli spazi di Camera a Torino. E l’avevo a mia volta fotografata. Pur profondamente diversa nei colori, nei tempi e nei piccoli dettagli, l’immagine ritratta da Lange mi aveva ricordato, con violenta ma irrimediabile spontaneità, una delle ultime immagini che io stessa avevo visto a New York il mio ultimo giorno di viaggio ad agosto: un ragazzo rannicchiato a terra, sul pavimento di una delle fermate più affollate della metropolitana, privo di sensi e privo - soprattutto - del sentimento di esistere. Il suo corpo infatti, proprio come quello dell’uomo senzatetto ritratto da Lange, non si proteggeva in qualche parvenza di riparo (un angolo, una parete, un anfratto) ma giaceva come gettato in mezzo al percorso, davanti all’ascensore, in balia dell’andirivieni di migliaia di persone, nella più crudele forma di oblio individuale e sociale. Io l’avevo, infatti, scavalcato. E non era l’unico, proprio come l’uomo della fotografia di 90 anni fa: vicino ai loro corpi ce n’erano e ce ne sono altri. E non solo in senso fisico.
Accanto a questi uomini poveri e soli di due ere diverse ma non troppo lontane l’una dall’altra, infatti, accomunati dallo stesso sentimento di oblio e oscura dimenticanza che fa apparire inutile persino la ricerca di un illusorio riparo, negli Stati Uniti esistono o sono esistiti diversi altri gruppi di uomini e donne: ragazze nere, tribù native, dissidenti politici, persone trans, tossicodipendenti, prigionieri, persone obese, giovani delle gang, nomadi e intere famiglie di discendenza giapponese. Queste ultime sono di nuovo raccontate e rappresentate dall’incredibile lavoro di Dorothea Lange, oggi finalmente riscoperto e valorizzato al pari della sua produzione più conosciuta.
Nell’esposizione torinese - visitabile fino all’8 ottobre - trovano infatti largo spazio molte fotografie che Dorothea Lange e il marito scattarono nei campi di internamento che il governo degli Stati Uniti allestì frettolosamente nella West Coast e in altre zone occidentali del paese in seguito al bombardamento giapponese di Pearl Harbor nel dicembre del 1941. Ovvero il momento in cui gli Americani decisero di entrare in guerra, ma anche di modificare drasticamente la composizione sociale delle proprie città: dal giorno alla notte furono infatti sgomberati interi quartieri, divise intere famiglie, sbarrati centinaia di negozi ed esercizi commerciali, deportate migliaia di persone di origine giapponese che da quel momento in avanti vissero sul territorio statunitense prima nell’assoluta negazione della libertà e poi nell’oblio. Per colpe che non avevano commesso, per una guerra che neanche sapevano di combattere, per un’appartenenza che molte di loro neanche potevano rivendicare perché erano nate negli Stati Uniti ed erano a tutti gli effetti cittadine e cittadini americani.
Dato che Lange e il marito disapprovano pubblicamente questa operazione, il suo lavoro è continuamente sottoposto al controllo da parte dell’esercito: non le è consentito ritrarre il filo spinato, le torri di guardia e i militari armati, e non può conservare i negativi delle sue immagini, tant’è che queste fotografie rimangono a lungo praticamente sconosciute.
I soggetti che ritrae più spesso sono ragazzini e anziani. I giovani esprimono la propria identità pienamente americana: leggono fumetti americani, giocano con giochi americani, indossano abiti americani e cantano l’inno americano con trasporto e sentimento. Gli anziani, invece, vestono i propri abiti migliori e attendono con pacata rassegnazione di essere ricollocati. La pericolosità degli uni e degli altri è tutta da dimostrare.
La deportazione e l’esistenza dei campi di internamento per persone di discendenza giapponese restano ancora oggi una delle pagine meno conosciute della storia degli Stati Uniti, una pagina che è stata a lungo nascosta, pur giacendo sotto la luce del sole esattamente come l’uomo della fotografia. Solo il profondo ripensamento culturale di questi ultimi decenni l’ha riportata alla luce, insieme a una forte autocritica a cui si sta sottoponendo una buona parte della popolazione americana. Non ti stupirà sapere, tuttavia, che la letteratura aveva già raccontato più e più volte le storie di queste persone, spesso con un taglio molto pop e godibile: nell’invitarti a visitare la mostra di Dorothea Lange a Camera a Torino nelle prossime settimane (la citazione sopra è proprio di una delle didascalie), ti consiglio di dare un’occhiata anche al romanzo di Jamie Ford Il gusto proibito dello zenzero (link affiliato): potrebbe piacerti molto, una narrazione completa l’altra.
Tutto ciò che non è libro
In questo momento è soprattutto membership: con la newsletter in pausa e io impegnata prima con i Book Riders e poi con la promozione di Sparire qui, nelle ultime settimane i contenuti migliori per te e per voi sono arrivati dai tre programmi in abbonamento.
Il podcast Miglia, prima con la puntata di agosto sui Compton Cowboys di cui sono felicissima e poi con quella di settembre su Cape May, New Jersey, ottima per salutare l’estate.
La newsletter Mac&Cheese, che in questi mesi ospita penne e voci che io e la mia socia Valeria - al momento in maternità - stimiamo: ad agosto Chiara Beretta ha creato per noi una mappa misteriosa e accuratissima dei luoghi della bomba atomica negli Stati Uniti (da leggere prima o dopo aver visto Oppenheimer), mentre domani arriva il pezzo di Francesco Costa che - ti anticipo - sarà molto gustoso.
Il bookclub LIT, che ha fatto in tempo a riunirsi il 30 di agosto per discutere con passione di Nevada, il romanzo di Imogen Binnie. A settembre lasciamo momentaneamente la letteratura americana contemporanea e facciamo un salto tra i classici: leggiamo insieme i Nove racconti di Salinger! Puoi partecipare anche tu, ovviamente: ogni singolo appuntamento merita.
In ultimo, grande attenzione è dedicata a Telegram, il canale che preferisco per condividere momenti, cose interessanti che leggo/guardo/ascolto e novità americane.
Grazie per avermi letta fin qui oggi, spero che continuerai a farlo tra le pagine di Sparire qui. La newsletter torna tra due sabati 💙
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