Sogni Americani
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Parole, parole, parole

Considerazioni sulla convention (ma sarebbe meglio chiamarla festa) democratica

Oggi parto da quello che di solito lascio alla fine, un paio di appuntamenti da ricordare. Lo faccio perché voglio togliermeli subito e far finire questa newsletter con qualcosa di diverso. Dunque, procediamo: il 29 agosto il mio libro Sparire qui compie un anno! Sono più le cose che sono evolute rispetto a quelle che sono rimaste uguali per quanto concerne il mio percorso con gli Stati Uniti raccontato nel memoir, ma magari ne parliamo dal vivo il 5 settembre a Casarza Ligure (villa Sottanis, ore 20.30, ingresso libero) con Debora Lambruschini. Il 7 settembre, invece, parlerò di New York e di una storia molto bella con gli autori del libro L’invenzione dei tuoi occhi (Francesca Berardi e Lucio Schiavon) a Santo Stefano Balbo in occasione del Pavese Festival (tutti i dettagli qui). Vi aspetto in entrambe le occasioni!

E, adesso, Chicago.

Ho sempre mal sopportato la contrapposizione tra Bret Easton Ellis e David Foster Wallace. Faceva gioco a un certo tipo di critica letteraria (e ancora lo fa), ma metteva in ombra un fatto: entrambi, con opere del tutto diverse tra loro ma complementari, raccontavano l’ipocrisia del loro Paese e insegnavano a riconoscerla. Insegnavano, innanzitutto, a riconoscere che nella realtà americana ci sono sempre e almeno due livelli (luce e ombra, superficie e profondità, manifesto e implicito, ottimista e disastroso, ironia e verità, lineare e paradossale) e, successivamente, mettevano in relazione la falsità dell’uno (i primi termini del binomio) con l’irrimediabilità dell’altro (i secondi termini).

A dire il vero, questo l’hanno fatto praticamente il 90% degli scrittori e delle scrittrici statunitensi della modernità: basta aver letto un libro qualsiasi che non sia pura letteratura commerciale (Toni Morrison, Stephen King, Don DeLillo, Joyce Carol Oates, Hector Tobar, Kurt Vonnegut per dire i primi grandi che mi vengono in mente) per rendersene conto. Non c’è un buon libro di letteratura americana che, in fondo, non parli di questo (e sono certa che sia così anche in tanta musica e in un certo cinema): mai credere agli Americani e a quello che raccontano quando devono far mostra di sé a una festa, sotto i riflettori, al mondo intero. A meno che poi, a luci abbassate o a microfoni spenti o a porte chiuse, non si vada a vedere chi è rimasto fuori da quella festa, cosa raccontano quando nessuno li sente, cosa ne hanno fatto di tutta quella polvere che hanno sollevato ballando, dove tutte quelle parole gridate e quei sorrisi ostentati trovano riscontro quando la sbornia è finita.

Ellis continua a farlo da Dio, non fa altro che scrivere di feste e luci e sorrisi e scenari perfetti che però, per quanto ci provino, alla fine non riescono a contenere la violenza che straborda nel silenzio e nel buio di una notte che è puramente metaforica, l’ossessione, la minaccia, la paranoia, l’ingiustizia, la psicosi. L’ipocrisia. Che poi, se vai a vedere, sono i titoli dei corsi universitari con cui si fa studiare l’America a chi vuole capirci qualcosa, sono i grandi temi sotterranei con cui la storia americana si propaga e si racconta da secoli, sono le fondamenta di una società imbattibile a vendersi ma un po’ meno a guadagnare e mantenere credibilità. Una guerra alla volta, una crisi umanitaria alla volta, una convention alla volta.

Di certo, quando si tratta di costruire un racconto di sé gli Americani sanno essere inebrianti, stupefacenti, spettacolari (in tutti i sensi): l’ars oratoria, il carisma e l’efficacia nell’intrattenere dei coniugi Obama, di Kamala Harris, di Oprah Winfrey a Chicago sono stati trascinanti. A differenza dei loro avversari o delle loro controparti, inoltre, hanno saputo usare e spostare e reinventare concetti base super riconoscibili della cultura americana (freedom, joy, unity, possibilities, family, self-determination) come se quella che stavano intrattenendo col pubblico fosse una partita a scacchi e loro - bravissimi - sapessero sempre quando farlo matto. Questo è stata la convention democratica della settimana che si è appena conclusa: la più festosa partita a scacchi della contemporaneità.

Un capolavoro di calcolata e studiatissima ipocrisia sistemica.

Una delle persone che meglio ha saputo raccontare questa faccia della medaglia, in primis perché l’ha vissuta (anzi, subita) in quanto uomo afroamericano e dunque vittima di razzismo, violenza, disuguaglianza e oblio (come abbiamo visto poco fa, tutti caratteri della società e della cultura statunitense), è stato Ta-Nehisi Coates, giornalista e scrittore amatissimo da Barack Obama e spesso ospite di Oprah Winfrey (è l’autore del celebre Tra me e il mondo), ma in questi giorni totalmente su un altro livello rispetto ai due, un livello senz’altro più vicino alla realtà e meno allo spettacolo.

È suo, infatti, il pezzo che meglio spiega perché l’ipocrisia è un tratto sistemico degli Stati Uniti e che lo fa affrontando l’elefante nella stanza di questi mesi, ovvero la disumanizzazione dei Palestinesi. La guerra a Gaza. La richiesta degli Arabo-americani di essere visti, ascoltati e rispettati da chi dovrebbe rappresentarli, ovvero il Partito Democratico, che fa della diversità e dell’inclusione la sua forza (parole dello scrittore), ma glielo nega, ripetutamente e convintamente, per l’intera durata della festa (e ben oltre). Il contraltare, dunque, contro cui vanno a schiantarsi buona parte delle parole della convention.

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L’articolo puoi leggerlo sul sito di Vanity Fair o nel post qui sopra, puoi anche metterlo su Google translate e apprezzarlo in italiano. Qui sotto alcuni punti che mi sono sembrati importanti:

  • l’area metropolitana di Chicago è casa del maggior numero di Palestinesi-americani del Paese ma non lo diresti mai guardando o ascoltando le persone che si alternano sul palco della DNC, a nessuno di loro è stato concesso di parlare;

  • probabilmente perché avrebbero parlato delle intenzioni dichiarate di Israele, ovvero “combattere bestie umane” (Yoav Gallant, ministro della difesa) o cancellare l’intera popolazione palestinese visto che “non ci sono civili innocenti a Gaza” (Isaac Herzog, presidente);

  • le bombe più distruttive che hanno reso concreta questa retorica dello sterminio sono state fornite dagli Stati Uniti;

  • il punto sta nel vedere i Palestinesi e la vita dei Palestinesi con la stessa chiarezza con cui si vedono tutte le altre; uno dei modi con cui nella nostra società si palesa questa chiarezza è attraverso le arti, i mezzi di comunicazione e i rituali pubblici - rituali come le convention politiche nazionali;

  • (questo pezzo è splendido, lo traduco parola per parola) forse più che in altri tempi, questa convention democratica ha esortato i suoi vari elettori a mettere in luce le proprie identità e il dolore collettivo che le anima. Razzismo, nascite forzate, furto di terra. È stata una messa in mostra di ciò che lo studioso palestinese Edward Said ha definito “il permesso di narrare”, ed è proprio quel permesso che ai Palestinesi-americani è stato negato. Hanno sentito i loro nomi menzionati fugacemente da una manciata di oratori, ma non è stato loro concesso il diritto di pronunciarli essi stessi. Forse è per paura di cos’altro potrebbe dire un Palestinese-americano. Non posso dire che la paura sia ingiustificata.

Il pezzo continua, poi, con il racconto di una visita dell’autore in alcune terre controllate da Israele e della sensazione piuttosto famigliare che ha percepito lì: come i suoi avi hanno vissuto in una terra in cui nessun uomo nero era uguale ai bianchi, così in Israele e nei Territori Palestinesi non esiste un solo Palestinese che sia uguale a un ebreo (dice proprio Jewish nel pezzo). La discriminazione è perfettamente legale e, anche laddove esiste una società o comunità palestinese, questa è soggetta a regole non proprie ma stabilite da Israele. Quella che dovrebbe essere e che spesso viene definita l’unica democrazia del Medio Oriente è in realtà un’etnocrazia sponsorizzata e appoggiata dagli Stati Uniti. Perché per molto tempo l’America stessa è stata un’etnocrazia travestita da democrazia.

The ostensible triumph over that old system, which we call Jim Crow, is one of the most uplifting stories America tells itself, one that has been repeatedly invoked at the DNC. How odd I find it that a people, presently brutalized by a similar system, whose relatives are being erased by that system’s wanton violence, are also being erased from the stage.

Nonostante, scrive Ta-Nehisi Coates, l’America celebri come un trionfo il superamento di quel vecchio sistema e, anzi, quel trionfo sia stato spesso invocato alla convention democratica, oggi una comunità che viene brutalizzata da un sistema simile e i cui parenti vengono cancellati da una violenza del tutto ingiustificata viene anche cancellata da quello stesso palco.

Kamala Harris, il giorno dopo la pubblicazione del pezzo di Coates, sulla questione ha detto così:

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E, a malincuore, non credere agli Americani non è mai stato così facile.


Dicevo, niente appuntamenti ma un disclaimer

Rispetto ad alcuni messaggi che ricevo online voglio precisare questo: io non sono una cheerleader, sono una giornalista. Non sono una groupie, sono una divulgatrice. Non devo fare il tifo per nessuno, il mio lavoro è raccontare storie, dare strumenti per pensare, offrire una visione documentata e argomentata di ciò che ritengo urgente e importante rispetto al potere culturale e politico che l’America esercita oggi, alzare il tappeto della superficie e permettere a chi mi legge o ascolta di guardare sotto. Non lavoro per il Partito Democratico né per quello Repubblicano né per nessun altro soggetto degli Stati Uniti, men che meno per l’ufficio del turismo: lavoro unicamente per voi (e per me, perché quello che faccio mi piace sempre moltissimo) e rispondo ai principi della ricerca, della deontologia giornalistica e dell’umanità.

Grazie, ci sentiamo tra due sabati, buona fine estate.

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Dai risvegli.
La newsletter quindicinale di Marta Ciccolari Micaldi, aka La McMusa.
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