Sogni Americani
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Solo un fiume
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Solo un fiume

Reportage dal confine tra Texas e Messico

El Paso, giovedì 9 novembre, 18.21 ora locale. Sono arrivata in città da alcune ore, da est, dal lato statunitense del deserto del Chihuahua, un’enorme (infinita, una cosa che a parole non si può descrivere) porzione di territorio brullo e dorato dove vanno a cacciarsi persone diverse con storie molto diverse tra loro e dove spesso i colori si combinano come nell’immagine qui sotto, in una grazia di luce e sfumature che raramente si trova altrove ma che non raramente, invece, contrasta con molte di quelle storie. Con molte delle storie nascoste tra gli arbusti di mesquite, stravolte dal caldo, deboli per la fame e la sete, abusate dai trafficanti di droga e di persone, terrorizzate dalla polizia di frontiera che qui domina dall’alto, dal basso e in ogni luogo.

Mi trovo qui con i Book Riders. Per la prima volta dopo la pandemia il tour del Wild Wild Texas è tornato on the road e ci è tornato con un’intenzione nuova, anzi due: onorare l’opera di Cormac McCarthy, in particolare quella dedicata alla Trilogia della frontiera, a Meridiano di sangue e a Non è un paese per vecchi, e percorrere buona parte del confine texano con il Messico, con il preciso proposito di approfondire - sempre grazie all’aiuto della letteratura ma in questo caso anche del giornalismo e della pura presenza fisica - uno dei luoghi più strumentalizzati, stravolti e politicizzati del discorso culturale americano. E non solo: di confini e frontiere su cui si accendono dibattiti e per cui si combattono guerre ce n’è ovunque nel mondo, così come nella storia. E infatti noto, con amarezza e un certo patimento che non riesco a scrollarmi di dosso, che ti scrivo nell’anniversario della caduta del muro di Berlino davanti a un muro che oggi sembra ben più alto e divide El Paso dalla sua dirimpettaia su suolo messicano, Ciudad Juàrez, assicurando da anni a questo territorio ben più strazio che protezione, mentre dall’altra parte del mondo decine di migliaia di persone palestinesi vengono uccise ogni giorno per la spartizione di una terra, per la conquista di un confine, per l’affermazione di un lato sull’altro. Per non parlare dell’altra invasione, quella della Russia in Ucraina, e di tutti quei confini violati o estremizzati che sanguinano da tempo immemore ma non arrivano a fare notizia.

Mai mi sarei immaginata di tornare in Texas per quello che è sempre stato il mio tour preferito nei miei luoghi preferiti, e non riuscire a raccontarlo. A te, a voi, a chiunque stia fuori dal van dei Book Riders, la piccola bolla in cui mi sono rifugiata dai primi del mese fino a oggi, senza riuscire a comunicare più con l’esterno. Eppure è proprio quello che è successo: quando non coinvolta dal viaggio, la mia testa è stata impegnata altrove, a cercare di capire come l’Occidente sia arrivato a fare quello che sta facendo, in nome della democrazia per di più, e come l’Oriente sia arrivato a sua volta a essere disumanizzato a tal punto da diventare, in alcune sue parti, totalmente sacrificabile, inferiore, non rilevante. Senza sorprese, allora, ma con una appropriatezza che questa volta più di altre ho percepito potente, persino salvifica, il confine texano-messicano e il territorio che vi è cresciuto intorno sono riusciti a fornirmi se non delle risposte quanto meno un corrispettivo. Crudo nelle somiglianze, ma corroborante nella possibilità che ci ha offerto di essere interrogato e inquisito. E che ora cerco di portare anche a te, in un tempo se non di pace assoluta, almeno di pace apparente: mentre ti racconto tutto questo, infatti, a poche centinaia di metri da me, approfittando del buio che è appena calato sulla zona, diversi gruppi di persone tentano di scavalcare il muro o ci passano sotto e decine di auto o elicotteri della polizia illuminano a giorno porzioni di terra e di cielo. Vivere questa tensione non è una bella esperienza.

Per molta della sua parte, per prima cosa, il confine tra Texas e Messico è solo un fiume. Grande nel suo nome ma minimo nelle sue reali dimensioni, in diverse zone della frontiera il Rio Grande si presenta agli occhi umani come un piccolo corso d’acqua largo appena una decina di metri: guadarlo qui è una scemenza, pensi mentre ci cammini a fianco dal lato texano, provando un misto di incredulità per le proporzioni fisiche, soggezione per ciò che quelle proporzioni in realtà rappresentano sul piano sociale e incapacità di rapportare lo scontro di civiltà a una cosa così banale come un guado, un bagno veloce fino alla cinta in un po’ di acqua fangosa e immobile. A spaventarti con il suo carico di speranza e morte è piuttosto l’incredibile deserto che dal Rio Grande si estende verso nord, ingannando con i suoi bagliori e i suoi miraggi le forze di chi qui arriva per miracolo e poi si ritrova preda di una beffa a morire di sete, di veleno per la puntura di serpente, di botte per la lotta alla sopravvivenza, di tradimento per un cielo meraviglioso che scalda la terra fino a renderla un inferno. Un inferno dall’orizzonte infinito: è capitato anche a noi, infatti, nella comodità del nostro van, di pensare a quanto fosse sterminata questa dura terra, a quanto non finisse mai (ore e ore e ore di guida), a quanto poco saremmo durati noi là in mezzo alla natura selvaggia e neanche un riparo.

Quando poi il deserto termina e cominciano le cittadine, il confine assume tutto un altro aspetto: diventa una terra di mezzo, un posto che non è né Texas né Messico ma una mezcla dei due, una cultura mestiza e chicana dove elementi angli e latini si innestano gli uni negli altri (la lingua, in primis) e danno origine a quella che viene chiamata borderland, terra di frontiera appunto, una terra indipendente che è terza rispetto alle due che si vorrebbero dividere e invece si uniscono. Qui le radio passano quasi esclusivamente musica latinoamericana, si parlano messicano, spanglish e inglese americano, si alternano negozi da cowboy e da quinceañera, le persone vivono una vita tanto statunitense (nell’acquisizione di nuove abitudini, nella formazione, sul posto di lavoro) quanto latina (la cucina, le tradizioni, la religione, l’abbigliamento) e attraversano, cavalcano la linea del confine quotidianamente: per dovere, scuola, affari e relazioni di ogni genere. Fa impressione arrivare a El Paso e vedere i segni concreti e reali di questa mezcla: sono storie, queste, che non racconta quasi nessuno tranne i telegiornali, astraendole e manipolandole; sono luoghi, questi, che neanche la nostra immaginazione sa come comporre e infatti non assomigliano per niente a quello che avevamo in testa. Uno pensa che il confine divida, poi arriva qui e vede che il confine ha anche unito. Ed è tremendamente vicino da rischiare di scomparire del tutto.

Proprio come scrive Gloria Anzàldua nel suo Borderlands. Considerato uno dei cento libri più importanti del Novecento, il suo testo e la sua definizione di mestiza ci hanno guidato lungo le strade di El Paso trasmettendoci un messaggio irruente, su cui abbiamo discusso molto:

Come ha detto Paola, una delle Book Riders in viaggio con me in questi giorni, vivere e vedere una città come El Paso ti dimostra che là dove non riesce la politica riescono invece gli esseri umani, le persone normali. Anche se il prezzo che pagano a volte è intollerabile. E spesso non è sufficiente per cambiare realmente le cose.

C’è un altro libro che questa sconfitta la spiega con puntuale umanità e partecipazione: è Solo un fiume a separarci di Francisco Cantù, uno scrittore americano di origini messicane che per alcuni anni lavorò come ufficiale della polizia di frontiera proprio qui a El Paso e dintorni, e poi, quando non ce la fece più, la abbandonò e ne raccontò le dinamiche, gli abusi, le preoccupazioni, i doveri. È grazie alle sue parole che abbiamo colto una parte dell’intricato meccanismo che regola le terre di frontiera ma anche che abbiamo trovato una specie di conforto rispetto a come stiamo, a come una parte di noi si sente, a come io certamente mi sento rispetto a ciò che sta accadendo su un altro confine, quello in Palestina. Una terra che, per colori ed elementi, mi immagino non tanto diversa da quello che vedo fuori dal mio finestrino qui in Texas e che è casa oggi di una delle nostre più grandi sconfitte umani e ferite morali.

Paso del Norte International Bridge, El Paso

Nel suo libro What We Have Done, il giornalista veterano di guerra David Wood affronta la pervasività delle “ferite morali” tra i soldati al ritorno dai fronti iracheni e afgani. Per lungo tempo confuse con la sindrome da stress post-traumatico, le ferite morali producono una sofferenza più sottile, caratterizzata non da flashback o da attacchi di panico ma da “tristezza, rimorso, afflizione, amarezza, vergogna e confusione sul piano morale” che trovano espressione non in reazioni di tipo fisico ma in risposte emotive impalpabili e sfuggenti quanto i sogni e dubbi. “Nel suo senso più semplice e profondo”, scrive Wood, “la ferita morale è una sorta di disconnessione patologica dalla comprensione di ciò che siamo e ciò che noi e gli altri dovremmo o non dovremmo fare”. Come gli ha raccontato un soldato, “una ferita morale è un comportamento appreso, consiste nell’imparare ad accettare ciò che sappiamo non essere giusto”.

Wood spiega che “la maggior parte di noi […] possiede una ferma e profondamente personale comprensione degli imperativi morali dell’esistenza, della differenza tra giusto e sbagliato, tra buono e cattivo. Quel sentire, la nostra bussola interiore, si regge su nozioni che acquisiamo sin dall’infanzia […] Ma la guerra, per sua stessa natura, tende ad abbattere in modo repentino e violento ogni credenza morale superstite. Le cose non vanno bene in guerra, il cui scopo ultimo richiede morte e distruzione.” L’abbattimento delle convinzioni morali è un processo lungo e graduale, che non è facile percepire. Allo stesso modo, quella morale è una ferita che si fa strada lentamente, qualcosa che accade, come scrisse un veterano dell’Iraq, “quando una persona ha il tempo per riflettere sull’esperienza traumatica”.

Quando Wood parla di ferite morali, nella maggior parte dei casi si riferisce ai traumi subiti in combattimento, da soldati dispiegati in scenari di guerra dall’altra parte del mondo. Ma sottolinea che non è necessario ritrovarsi al fronte per subire una ferita morale. E ci ricorda che la guerra è qualcosa che si spinge ben al di là dei campi di battaglia, qualcosa che filtra fin nel nostro quartiere e nelle nostre relazioni, scavando nell’inconscio individuale e sociale. “ Essere in guerra”, secondo Wood, “anche in questo senso più ampio, vuol dire essere esposti a una ferita morale”.

Grazie per avermi seguita fin qui oggi. Quando questa newsletter ti arriverà io sarò in procinto di salutare i Book Riders e di partire per un nuovo viaggio (di vacanza, questa volta) nel Southwest degli Stati Uniti, di cui con ogni probabilità racconterò qualcosa qui tra due settimane. La newsletter, infatti, torna come sempre tra due sabati, il 25 novembre. Prima di salutarti, però, ho una bella notizia da darti (e ci vuole proprio)!


“Sparire qui” sbarca a New York

Grazie all’idea e alla perseveranza di Clara Ramazzotti, giornalista e amica residente nella Grande Mela, il mio libro sarà presentato all’Università di Fordham durante un evento aperto a tutti e a tutte, il 20 novembre alle 18.45 presso il Fordham University Lincoln Center Campus, room LL 524. Naturalmente in dialogo con lei (e questo mi rende ancora più felice)!

Sono ovviamente contentissima e spero davvero che diventi l’occasione perfetta per incontrare tante persone che vivono a New York e negli Stati Uniti. Muoio dalla voglia di confrontarmi con chi ha fatto dei luoghi di Sparire qui la propria casa. Cliccando qui sotto puoi avere qualche info in più, invece se sei tra le persone che vogliono venire qui c’è un comodo RSVP.

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Le presentazioni riprendono anche in Italia a partire dal 24 novembre, al più presto troverai tutti gli appuntamenti a questo link. Adesso è davvero tutto, un abbraccio da El Paso dove intanto si è fatta notte e gli elicotteri della polizia di frontiera pattugliano e frammentano il cielo con fasci di luce inquietanti. Ciao!

*i link dei due libri inseriti nel testo sono affiliati: tu li compri e a me arriva una minima percentuale che aiuta a sostenere le spese di questa newsletter.

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La newsletter quindicinale di Marta Ciccolari Micaldi, aka La McMusa.